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"Ero destinato a far affiorare quella che si chiama sensibilità": conversazione con Umberto Contarello
lunedì 20 luglio 2020 alle 09:21

Conversazione con Umberto Contarello


In un intervento lei ha detto che «per chi lavora con le parole […] il problema più importante è trovare la prima parola». Trovandomi nella sua stessa situazione, ne ho trovata una, presa dalla parte iniziale di una sua sceneggiatura (La grande bellezza): sensibilità. Lei crede di essere «destinato alla sensibilità»?

Diciamo che forse ero destinato a far affiorare quella che si chiama sensibilità, sulla quale si dovrebbe poi concordare essendo una parola sfuggente, da quando questa parola ha sostituito, per me, altre parole che in altre fasi della mia vita professionale utilizzavo con più diffusione. Ad un certo punto ho cominciato a parlare di sensibilità e penso di poter parlare di sensibilità perché è diventata una parola nemica di altre. Una parola si definisce sempre attraverso il suo nemico, il suo oppositore. La sensibilità ha a che fare con una parola simile e limitrofa che è intuizione: entrambe sono parole nemiche di conoscenza e di progettazione. Il passaggio fondamentale è stato quello di non scrivere ciò che si progetta, ma di scrivere ciò che nell’attimo in cui si scrive emerge e si fa racconto, si fa scrittura senza essere stata pensata, conosciuta. La sensibilità ha a che fare con uno stato di cose, c’è un attimo, come nell’intuizione, in cui le capacità combinatorie del cervello entrano in azione e combinano elementi diversi tra loro, teoricamente non combinabili, e il risultato di questo precipitato chimico non è uno più uno due, ma è uno più uno fa cento. E questo si raggiunge solo con l’intuizione, non con il ragionamento.

Nelle prime pagine del suo romanzo Una questione di cuore, scrive: «Mi fa il produttore, “dov’è la storia?”, e “io le storie le compro dal tabaccaio”, gli dico, “insieme alle sigarette». E poco dopo (parlando con un regista): «“È venuto fuori il solito sfigato del cinema che fate voi, un cinema che non funziona”, e solo Dio sa quanto detesto quella parola, “un rubinetto funziona”, faccio io, “una dinamo funziona”».
Una tendenza a fare film che funzionano, un approccio allo scrivere in contrapposizione all’intuizione, sembrerebbe essere entrato con forza anche nel cinema italiano. Cosa ne pensa?

Io sto parlando di oggi, di come lavoro oggi, di come sono oggi, non di quello che ero venti, trenta anni fa. Ero e lavoravo in modo molto più pensato, molto più strutturato. Occorrerebbe fare una parentesi storica. Quando ho cominciato a fare questo lavoro il destino ha dato alla mia generazione un paradosso: normalmente i giovani sono destinati ad avere dei nemici, sono destinati a destrutturare, a non-costruire, a rompere, e tutte le avanguardie artistiche sono nate così dalla Nouvelle Vague francese in poi, ma purtroppo noi ci siamo trovati, invece, di fronte ad un destino, diciamo, cattivo, perché avevamo di fianco a noi un cinema dove non avevamo padri potenti da combattere perché i nostri padri non erano completamente padri, erano cugini maggiori: Amelio, Bellocchio… Era un cinema d’autore, era la fase del loro cinema d’autore meno felice nel senso che era la fase in cui la loro idea di cinema si era aggrovigliata psicoanaliticamente in modo eccessivo. Era una fase in cui non uscivano le loro opere migliori, erano uscite prima e sarebbero uscite dopo. Parallelamente quindi era un cinema che non era fatto di storie, non era fatto di presa diretta. Era un cinema retroflesso. Parallelamente c’era un cinema commerciale che era il peggiore degli ultimi trent’anni. A noi è toccato fare i grandi, cioè ricostruire da zero un alfabeto della narrazione, si potrebbe dire, con più precisione, che ci è stato dato il compito di ricostruire una classicità. Quindi, in quella stagione, sono nati film bellissimi che avevano al centro l’idea di poter riraccontare storie scritte in modo composto, coerente, plausibile, storie dove il paesaggio italiano ritornasse al centro della visione, riprendendo anche come si utilizzava il paesaggio italiano prima di noi, dai veri nostri nonni che erano Antonioni e Fellini per esempio. Antonioni e Fellini non erano padri, questo ha fatto sì che noi crescessimo facendo i compiti e i nostri primi film sono dei film che rimettono al centro il racconto. Naturalmente questo non è avvento, così, utilizzando metodi o approcci teorici o studiando strutture, ma siccome eravamo una generazione di cinéphiles, cercando di utilizzare film molto belli che avevamo visto, avendo un’ambizione molto alta, nel senso di voler confrontarci solo con grandi film, con grandi storie, abbiamo cercato un po’ di rubare quel che era il segreto di una storia. E così abbiamo trascorso molti anni, poi la storia si è trasferita piano piano in televisione, nelle serie, e ha liberato il cinema dal destino di raccontare storie. I film oggi non si sostengono più sulla storia, sono molti altri gli aspetti che motivano la riuscita, l’efficacia o la qualità. Riguardo al funzionamento quel discorso si riferiva proprio al concetto di storia, perché la storia prevede una sua coerenza interna e come tutti i sistemi che hanno coerenze interne, in fisica, in chimica, nelle scienze esatte, si definiscono come funzionanti o meno. Poi, quando si rompe la gabbia della storia, si irrompe nel territorio del se non c’è storia non c’è prosa e quindi c’è lirica.

Lei ha anche scritto: «La parola sceneggiatore suona lontana e invece è un lavoro normale». Azzardo riportando una riflessione di Tarkovskij: «Gli sceneggiatori non esistono affatto. Devono essere o scrittori che capiscono perfettamente cosa sia il cinema o registi in grado di organizzare da soli il materiale letterario». Si trova d’accordo? Nel suo caso come si definirebbe?

Non esiste una definizione di sceneggiatore perché non esiste ormai neanche più una definizione di cinema, i segmenti che componevano quello che era un film, come lo intendiamo, sono saltati tutti. Io non posso parlare dei miei colleghi, parlo di me e sono probabilmente un maldestro sceneggiatore, anche Flaiano era un maldestro sceneggiatore, ma questo non è stato un problema, ma un vantaggio, perché il non saper fare una cosa libera lo spazio a farne un’altra. Di bravi sceneggiatori ce ne sono molti e fanno tutti la stessa cosa: fanno funzionare delle cose e si divertono a far funzionare delle cose. Il loro rito di lavoro è completamente diverso dal mio: loro parlano tantissimo prima di scrivere, progettano tutto, sanno tutto e poi scrivono; io non parlo, con Paolo Sorrentino parliamo pochissimo, cerco di parlare il meno possibile perché cerco di cominciare il copione sapendo poco, perché il copione è il luogo attraverso cui si trova qualcosa, non attraverso cui, per me, si scrive ciò che si sa. Quindi non sono uno sceneggiatore, non sono certamente neanche uno scrittore, sono un lavoratore delle parole.

Questo statuto di lavoratore delle parole non è solo un auto-riconoscimento, infatti è riuscito a far pubblicare, alcuni anni fa, quattro delle sue sceneggiature (La lingua del santo; Ovunque sei; Luce dei miei occhi; La stella che non c’è) e più recentemente, con Sorrentino, sono uscite La grande bellezza per Skira e Loro per Feltrinelli. Se esiste un pubblico per le sceneggiature significa che questi testi evocano immagini potenti, dove è già di per sé la potenza della parola ad essere forte. Non è d’accordo?

Ti racconto a riguardo questo episodio: quando abbiamo scritto This Must Be the Place, abbiamo scritto il copione come piace a noi, cioè molto generoso, potrei dire anche impietosamente, in certe scelte, barocco. Ma a differenza della lingua media dello sceneggiatore medio italiano, che non ha lingua, ha la lingua della sceneggiatura, che non è una lingua personale: noi abbiamo una lingua. E significa poter dir tutto perché hai una lingua. Quindi il copione era un copione gonfio di allusioni, metafore, aggettivi. Ci dissero: «Guardate che questo in America non ve lo leggono neanche, perché sono abituati ad un altro tipo di scrittura», ma quando Sean Penn lo lesse ci chiamò e disse: «Finalmente ho letto una sceneggiatura entro cui, io, posso lavorare». Quindi quando dico che sono un lavoratore di parole, dico che con il tempo ho acquisito una lingua, e acquisire una lingua è una cosa faticosissima, ma quando la acquisisci passi dalla fatica al piacere: perché la lingua esce e non viene detta, mentre la parola che non è lingua viene detta.




Si è parlato della dimensione dell’aggettivo. Paolo Sorrentino, nel suo romanzo d’esordio Hanno tutti ragione, scrive: «Gli aggettivi seducono, i sostantivi annoiano. Questo è il grande segreto» e successivamente la ringrazia dicendo: «Umberto Contarello, che molti anni fa mi ha precipitato nel mondo degli aggettivi sconosciuti e delle metafore impossibili. Tutto quello che non vi è piaciuto in questo libro, è colpa sua». Al di là della battuta, non crede, in effetti, di aver sviluppato prima autonomamente e poi assieme a Sorrentino uno stile che seduca con la parola?

Sì, sicuramente. Noi abbiamo scritto sceneggiature nelle quali non pensavamo mai al dopo, pensavamo intanto a che cos’erano, a che oggetto erano e al fatto che, alla lettura, dovessero essere seduttive per noi. Cioè dovessero sedurre proprio noi. Quindi noi scrivevamo per auto-sedurci, che è un’operazione fortemente egoica, però è la condizione fondamentale perché l’ambizione a sedurre si trasmetta nei successivi feroci passaggi che portano dalla parola scritta all’immagine. È come una scia, una sceneggiatura seduttiva riesce a conservare una scia di seduttività nel film. Una sceneggiatura scritta mediamente, porterà a una medietà.

Alcune dimensioni apparentemente esterne alla scrittura possono entrare in essa. This Must Be the Place era particolarmente legato alla dimensione musicale, come tutti i film di Sorrentino d’altronde. Mi pare però di poter dire che anche lei ha un rapporto importante con la musica, è corretto? Come entra e influisce questa dimensione nel suo lavoro?

Ho un rapporto con la musica molto stretto. Come ce l’ha Paolo. Tra l’altro da un po’ di tempo, per non annoiarmi con l’uso delle parole, ho cominciato a scrivere canzoni per vedere come le parole possano comporsi in modo diverso. La prassi è semplice: entrambi, quando abbiamo di fronte una scena, scegliamo una musica sulla quale scriverla, che poi viene indicata nel copione, che non sarà necessariamente quella poi effettivamente utilizzata, alle volte sì, alle volte no. È la musica che ci dà. Io e Paolo non scriviamo i sottotesti, questa è una nostra abitudine, possiamo scrivere i dialoghi in modo apodittico, ma non scriviamo mai dialoghi allusivi. Neghiamo l’esistenza, neghiamo la possibilità di scrivere dei bei testi allusivi, alludendo ad un sottotesto. Il sottotesto è bello da scrivere, il testo non è bello. Scrivendo noi il sottotesto, trasformandolo in testo, la musica prende il posto del sottotesto, quindi per contrapposizione o per accentuazione, diventa il binario emotivo sul quale si poggia la scena.

È possibile che, in questo modo, si venga a creare un vero e proprio ritmo? Alle volte sfruttando anche rimandi interni, forse prendendo tecniche di scrittura cinematografica classica, salvo poi reinventarli entro il vostro tessuto narrativo? Come si dovrebbe analizzare, ad esempio, la ripresa interna de La grande bellezza tra la sequenza ambientata alle Terme di Caracalla, molto celebre per la presenza di una splendida giraffa, e il monologo conclusivo pronunciato dal protagonista Jep Gambardella?

Il punto è che non utilizziamo una tecnica. La téchne è un’altra cosa, è quel sistema di mosse che rifatte sempre allo stesso modo danno sempre lo stesso risultato. In scienza, in tecnologia per compiere qualsiasi prova si ripete lo stesso esperimento più volte per vedere se dà lo stesso risultato. Quello è un procedimento tecnico e fa parte della scienza esatta. Il nostro procedimento è solo di accostamento. Quindi non è un procedimento che prevede preparazione, non prevede impalcature, non prevede scene che servono ad altre scene. Noi non abbiamo mai scritto una scena di servizio, scena che gli sceneggiatori medi scrivono in abbondanza. Quelli più bravini si sforzano di coprire la scena di servizio, naturalmente come si suole dire il cerotto indica la piaga.

Una curiosità: esiste una stesura precedente de La grande bellezza che è intitolata L’apparato umano (nel film è il titolo del romanzo giovanile scritto dal protagonista). Cosa vi ha spinto a cambiarlo?

Non c’è nessuna sequenza causale dietro a questo cambiamento, succede invece che un giorno, per caso, uno sente la frase La grande bellezza. E dice «ma che bella frase, potrebbe andare bene per qualsiasi film».




La sceneggiatura, ed in generale la pagina scritta, permettendo al lettore di immaginare da sé ciò che sta accadendo, ha la capacità di stimolare la fantasia suggerendo immagini. Non potrebbe allora trovarsi, proprio in questa dimensione evocativa, lo statuto di autonomia della sceneggiatura?

Quando uno scrive cerca il piacere, non esiste altro movente. Il piacere si ottiene scrivendo qualcosa che piace. Il fatto che poi questo qualcosa ci corrisponda insieme, nel senso che ci piacciano tendenzialmente le stesse cose, questa è una grande fortuna che è nata da quando ci siamo incontrati. Il gusto comune si verifica sempre, si controlla, si riconosce non, per esempio, dal fatto che ti emozionano le stesse cose. Anche se non scriverei mai un film comico, il gusto intimo si verifica dal fatto che ti fanno ridere le stesse cose. È il riso il sentimento più profondo, misterioso e intimo. È il riso che distingue. Perché la morte di un padre emoziona tutti, ma sapere cosa ti fa ridere tra le mille cose, è quello il mistero intimo. E la scoperta del linguaggio comune con Paolo è nato esattamente così: ci faceva ridere, ad esempio, il rapporto tra esseri umani e animali. Ci ha sempre fatto ridere e lo abbiamo sempre messo. Ora nessuno sa perché ci fa ridere e scoprire che anche ad un altro fa ridere questo accostamento vuol dire che hai scavato e che, attraverso questo piacere condiviso, una sonda di gusto scava e porta a molti altri gusti comuni, piaceri comuni, sensibilità comuni. Ma quello, il ridere, è ciò che stabilisce il gusto comune.

Venite da due territori (Padova e Napoli), con due culture, con due lingue molto diverse. Queste vostre identità come sono entrate nel vostro lavoro?

Quando ho conosciuto Paolo, dovevo scrivere un film ambientato a Napoli sui cantati neomelodici. Allora avevo letto un suo copione al Premio Solinas, lui era molto giovane e gli ho detto: «Non so scrivere in napoletano, facciamolo assieme». E abbiamo passato assieme due mesi molto belli. Succedeva che io mi divertivo a parlare un napoletano maccheronico, e lui mi aiutava, e anche viceversa. Quindi, quando dico che abbiamo una lingua comune, dico che abbiamo anche uno schema di traduzione comune. Vale a dire che a lui fanno ridere certe cose, certe maschere, certe figure comiche, anzi retoriche, della mia tradizione come io adoro quelle napoletane. Fatte le immense, immense, immense proporzioni io e lui abbiamo due padri, come si può dire, letterari, che tra l’altro si conoscevano e hanno molte similitudini, si stimavano molto e avevano tratti comuni: per me Goffredo Parise, per lui Raffaele La Capria. E quindi certi momenti dei film dove apparentemente, e non solo apparentemente, non avviene niente, questa specie di ricerca del niente è comune alla leggerezza di Parise e alla leggerezza di La Capria. Loro avevano quella sorta di distanza delle cose, erano molto bravi a scrivere la distanza tra loro e le cose, entrambi.

Mi pare che parte integrante del vostro lavoro, della vostra sensibilità, sia proprio la vostra capacità di essere osservatori della bellezza, della delicatezza che vi sta attorno. Quando poi si leggono le vostre sceneggiature o si vedono i vostri film, si sente e si vede che una cosa è stata osservata e riproposta in una maniera al tempo stesso vera e profonda. Il vostro lavoro è soprattutto osservare?

Molti sceneggiatori sono bravissimi osservatori, ma il problema è che c’è una grande differenza tra il guardare e il vedere. Allora cosa distingue il guardare dal vedere? Il vedere è condotto, è un guardare che è condotto da un obiettivo. Osservare è muovere gli occhi. Se io cerco il bello, vedo il bello. Questo vuol dire che i nostri occhi, soprattutto quelli di Paolo, sono, da questo punto di vista, occhi straordinari: siamo due persone estetizzanti. E lo sguardo estetizzante porta a vedere un lampione come bellissimo, o un semaforo. Un osservatore guarda un semaforo e dice: «Ho visto un semaforo». Chi cerca il bello, vede degli occhi in un semaforo. Quando Flaiano e Fellini incominciarono a fare La dolce vita, stavano camminando una sera lungo Via Veneto era estate e si fermarono, guardarono tutti i bar che avevano gli ombrelloni, poi guardavano i bicchieri dei cocktail con gli ombrellini, poi hanno guardato l’andamento delle automobili che salivano lente e Flaiano disse: «Guarda ma non sembra di stare al mare?» e lui: «Siamo al mare. Adesso possiamo fare il film. Perché io farò un film balneare». Il vedere e il trasfigurare non centrano niente con l’osservare.

Parlando con lei ci si rende conto di quanto sia importante avere una conoscenza in estensione della lingua, il conoscerne le singole sfumature. È una conoscenza attenta della parola. In questo senso l’aggettivo può essere quella parola che conferisce la sfumatura corretta a sostantivi che, molte volte, rimangono neutri, medi in italiano.

È assolutamente così. Per un lungo periodo le parole sono come dei vagoni agganciati ad un treno. La locomotiva è il tirante della storia e i vagoni servono a trasportare passeggeri, sentimenti, quindi nessuno presta attenzione al vagone. Poi c’è un giorno in cui vedi il vagone separato, vedi la parola separata. La parola separata, quindi scelta tra tante, porta una sequenza di parole scelte, e se ogni parola è scelta non è più un vagone di vagoni uguali, ma è un vagone che è ornato, popolato diversamente, veloce e lento, antico e moderno, perché ogni parola è un colore. Quindi la frase finale, il periodo finale, è un colore, che è quello che serve per fare un film. Non serve tanto dire quello che succede, ma è il colore con il quale succede.

Questo ragionamento sulla singola parola, scelta, per la letteratura italiana, è molto più vicina all’idea del far poesia, una poesia non versificata.

Ci sono stati solo due sceneggiatori nella storia della cinematografia italiana che hanno inventato una lingua: Age e Scarpelli. Sono i due più grandi sceneggiatori italiani perché nei loro film si parla una lingua che hanno inventato loro. Hanno fatto un’operazione letteraria raffinatissima secondo la quale una lingua inventata sembra ogni volta mimetica a chi la parla, mai totalmente inventata. Sono i due unici sceneggiatori che sono scrittori a tutti gli effetti. Per quanto riguarda la faccenda della prosa e della lirica I sillabari di Parise e Ferito a morte di La Capria vanno proprio in questa direzione, perché loro hanno tentato esattamente questa strada: della prosa in poesia e della poesia in prosa. Vale a dire che hanno fatto prevalere, dal punto di vista comunicativo, il suono della frase dal dire della frase. Cioè il suono che dice, la frase suona. Ora, se un copione è fatto di frasi che suonano, il film avrà un suono che è la cosa più difficile da ottenere.

Perché non esiste allora, ad oggi, una letteratura del cinema?

Questo problema, che ci portiamo dietro dal Neorealismo con tutti i suoi fulgori e anche dalla Commedia all’italiana, ha negato l’accesso al cinema della poesia, considerandola un oggetto impossibile da gestire entro uno strumento naturalista come il cinema. Ad un certo punto, quando si è rotta la gabbia del naturalismo, si è aperta una fessura per la poesia. Il primo che ha fatto questo è stato Michelangelo Antonioni. I dialoghi di Antonioni sono lirici, sono stati dileggiati per la loro laconicità e si è arrivati al punto di dileggiare proprio una sua famosa battuta, che noi abbiamo invece volutamente citato in This Must Be the Place, che è una delle più belle battute della storia del cinema italiano, quando Monica Vitti ne La notte dice: «Mi fanno male i capelli». Questa è stata una battuta dileggiata, soprattutto dalla critica di sinistra di quel tempo, come battuta borghese, poeticizzante, liricizzante e invece ha un suono e una sublime, leggera ma potentissima capacità di comunicare il dolore a partire dalla cosa che, potenzialmente, normalmente non avverte dolore: questa è grandissima scrittura.

Intervista a cura di Andrea Valmori

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