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Una vita a New York: l'affresco comico-satirico di Fran Lebowitz e Martin Scorsese

Martin Scorsese prosegue il suo lavoro sul filone documentaristico realizzando una miniserie dove al centro brilla la figura della strabiliante scrittrice umorista Fran Lebowitz




Con Fran Lebowitz: Una vita a New York, Scorsese rimane perfettamente coerente con le cifre stilistiche e contenutistiche che l’hanno contraddistinto: il racconto della città di New York, la scelta di una colonna sonora rockeggiante mozzafiato (e una dose di buon Jazz) e una regia sempre attenta e maniacale. 

Scorsese rinnova la sua collaborazione con l’autrice americana dopo averla già diretta in Public Speaking, un progetto realizzato per HBO nel 2010. In questa docu-serie, distribuita da Netflix, Fran Lebowitz si mostra fin da subito una donna cinica, pungente, politicamente scorretta, estremamente ironica, in grado di restituire, attraverso il suo personalissimo filtro comico-satirico, una fotografia lucida della vita a New York. 

Lebowitz ha realizzato opere di stampo sociologico, come Metropolitan Life e Social Studies, e il libro per bambini Due panda a New York (l’unico tradotto in italiano), iniziando la sua carriera come redattrice per Interview di Andy Warhol.

Pensa prima di parlare. Leggi prima di pensare

Martin Scorsese e Fran Lebowitz mettono in scena un vero e proprio cabaret cinematografico alternando interviste vis à vis  a immagini di repertorio tratte dalle sue ospitate a programmi Tv (esilaranti gli scambi con Spike Lee) e con immagini d’archivio tratte dai film citati durante le loro conversazioni. Nel corso dei sette episodi, divisi per aree tematiche, si affrontano problematiche e questioni sul trasporto pubblico, sui servizi bibliotecari, sul fenomeno dello sport e sul rapporto distante che Fran assume nei confronti dell’altro: un’entità che fatica sempre di più a comprendere.

Lebowitz si trasferì a New York poco più che ventenne, con 200 dollari in tasca; per mantenersi racconta di aver fatto i lavori più disparati: la tassista, l’autista, la cameriera, la donna delle pulizie...dichiarando, infine, di aver odiato tutti questi impieghi. L’unica professione stimolante è quella di stare sdraiata a leggere, peccato che “Nessuno ti paga per questo”.

Lo spettatore ascolta piacevolmente Fran come ascolterebbe un’amica: si crea un’atmosfera empatica, le storie che racconta sono semplici e comuni episodi quotidiani che potrebbero capitare a chiunque, ma il suo carisma, la sua ironia, il suo senso dell’umorismo conferiscono ai suoi interventi un suono decisamente armonioso. I passanti che la urtano di continuo, poiché intenti a inviare messaggi con il proprio Smartphone (Fran rifiuta di possedere un cellulare, tanto quanto computer e Tv), a testa bassa, non accorgendosi di ciò che succede intorno, sono l’emblema di una tendenza umana verso l’individualismo. Puntualmente Fran risponde a tono a uno di questi passanti: “Pretend it’s a city” (“fingi che sia una città”), intervento pungente da cui prende spunto Scorsese per il titolo originale del documentario. 




L’alchimia tra i due interlocutori è decisamente coinvolgente, non mancano le risate alle battute puntuali di Fran e non sono da meno le rumorose risate di Scorsese che si diverte smodatamente ascoltando gli aneddoti della sua cara amica. 
La camera, di tanto in tanto, segue Fran mentre passeggia per le strade della Grande Mela, alla ricerca di qualche scorcio poetico, osservando ogni particolare che possa evocarle dei ricordi e soffermandosi spesso a leggere targhette incise sui marciapiedi: citazioni a cui nessuno fa più caso. Tutti con lo sguardo fisso sullo Smartphone.

L’universo è fatto di storie, non di atomi

Si avverte, però, un velo di malinconia, dietro le tante battute e risate, poiché New York è una città che ha perso la sua identità ed è piena di contraddizioni causate probabilmente da un falso progresso. Una realtà urbana decadente, confusionaria, rumorosa: il non-luogo che alimenta l’alienazione. Dove è facile perdere sé stessi, peggiorare l’esistenza e lasciarsi trascinare dai propri deliri, come Travis in Taxi Driver o come Jack LaMotta in Toro Scatenato.

Questa volta Scorsese decide di conferire maggiore valore alle parole di Fran Lebowitz, alla sua visione sarcastica di New York, rispetto alle immagini, alle azioni dei suoi personaggi di finzione divorati da una crisi d’identità. Chissà quanto deve essere noioso per uno psicologo ascoltare i propri pazienti diventati nevrotici a causa del rumore, parafrasando un’uscita di Fran Lebowitz che trasmette una chiara idea dei problemi banali che affliggono i cittadini newyorchesi.

Un artista se è davvero un artista, è interessato solo a una cosa: risvegliare le menti degli uomini

Il messaggio più potente deriva proprio dall’essenza stessa di Fran Lebowitz: una donna autentica che ha formato il proprio personale pensiero sulla realtà attraverso l’esperienza, esponendolo senza timore dei pregiudizi, senza nemmeno nascondere i propri vizi e difetti, in un mondo in cui l’immagine pubblica è sacra. La protagonista non rinuncia a donarci momenti di pura poesia satirica sulla vita quotidiana, seppur banale e ambigua, in grado di restituirci insegnamenti e spunti di riflessione importanti. A tratti Fran può risultare estremista ed esprimere un pensiero fin troppo radicale, ma nonostante ciò è impossibile non amare la sua sincerità, la sua convincente personalità e la sua fermezza derivata dal fatto che non vuole per nessun motivo tradire sé stessa, edulcorando interventi poco consoni al buon costume. 

Il suo silenzio creativo (non scrive più dal 1994) potrebbe derivare da una forma di protesta nei confronti di una contemporaneità fatta di gente distratta dai repentini cambiamenti della vita sociale, invasa da schermi e immagini che richiedono minor concentrazione e impegno rispetto alla parola scritta. Fran non è interessata alla New York consumista e avida di denaro, rivelando la sua passione per la letteratura e i concerti Jazz, due realtà forse destinate a scomparire, come tanti aspetti culturali alla deriva.

Vai a un’asta. Espongono un quadro di Picasso. Silenzio di tomba. Quando il martelletto batte il prezzo finale. Applauso. Viviamo in un mondo in cui si applaude al prezzo e non all’opera di Picasso. Ho detto tutto.

In conclusione, il regista newyorkese realizza un’opera molto intelligente, restituendo quella sana leggerezza stimolata da chiacchierate intime sulla realtà quotidiana e sulle proprie vite di due amici seduti al tavolo di un bar. Pretend it’s a city risulta un magnifico affresco urbano, intriso di amore e odio, dove alla fine per Fran Lebowitz (e per Martin Scorsese): “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata” come recita Woody Allen nell’incipit dello splendido Manhattan.


Matteo Malaisi

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