Luca Guadagnino, dopo il grande successo mondiale di Chiamami col tuo nome, debutta sul piccolo schermo con la serie We are who we are, prodotta da Sky in collaborazione con HBO.
Il colonello Sarah Wilson (Chloë Sevigny) arriva in Italia presso la base militare statunitense di Chioggia, in compagnia della moglie Maggie (Alice Braga), infermiera militare e del figlio Fraser (Jack Dylan Grazer), un quattordicenne dal look stravagante, non entusiasta di aver lasciato la città di New York.
È subito evidente la maestria registica di Luca Guadagnino, che dà voce all’inquadratura affinché possa sprigionare tutta l’espressività in favore del racconto: nell’incipit la macchina indugia e si avvicina, sempre più, verso il volto smarrito di Fraser. Il suo sguardo spaventato è come quello di un alieno appena atterrato in un pianeta sconosciuto, dove non ha la più pallida idea di cosa lo aspetti.
Spesso il protagonista si trova ai margini delle inquadrature, metafora della sua difficoltà di integrarsi e di sentirsi parte di un gruppo. Un soggetto incompreso relegato ai margini dell’esistenza.
Fraser vive un rapporto burrascoso con la madre, nascono continue dispute generazionali tra due poli che faticano a entrare in contatto. Non si sente compreso ma non tenta neanche di farsi comprendere. D’altronde è una caratteristica comune della fase adolescenziale, data dall’inconscia volontà di costruire, attorno al proprio corpo, un velo di protezione.
A ogni modo, Fraser vorrebbe evitare, per quanto possibile, conflitti interiori ed esteriori. Infatti, cerca instancabilmente una sensazione di benessere, avvalendosi delle lezioni impartite dai romanzi e dai libri di poesia, in cui ama immergersi, nel disperato bisogno di trovare, presso di loro, una risposta all’insensatezza della vita.
"Perché leggi le poesie?"
"Per la stessa ragione per cui odio i tuoi vestiti: è moda usa e getta. Compri una cosa che ti piace adesso e tra due mesi la butti. Cerco qualcosa che abbia un significato. Nella poesia ogni parola ha un significato"
Fraser si ritrova catapultato in un microcosmo statunitense, dove aleggia un’atmosfera ostile, in cui militari e dibattiti dell’elezione presidenziale sullo sfondo (del 2016: anno del trionfo di Donald Trump) sembrano confondere la strada verso una pace interiore e minacciano la volontà di trovare, infine, un senso all’esistenza. Emblematica, in questo caso, la scena della partita a paintball (incipit del quarto episodio) nei pressi di un bosco, dove il protagonista, steso passivamente sul prato senza nessuna voglia di impugnare un finto fucile, apre la puntata con un suo dichiarato addio alle armi.
Lo styling, soprattutto quello del protagonista, assume valore simbolico di espressione e manifestazione del proprio essere, oltrepassando la semplicistica riproduzione delle tendenze modaiole. In questo caso l’abito fa il monaco, con il fine ultimo di trasmettere dei messaggi positivi di sé stesso (citati gli stilisti Raf Simons e Demna Gvasalia; quest’ultimo, di origine georgiane, ha creato una collezione per Balenciaga, frutto dei suoi ricordi legati alla guerra nel suo paese).
L’incontro con Caitlin (Jordan Kristine Seamón) è l’inizio di un percorso di formazione tra adolescenti alla ricerca della propria identità, che si trovano a dover fare i conti con la propria sessualità, con relazioni che finiscono, con lo sbocciare di nuove amicizie e con i primi amori: sono presenti un’infinità di prime esperienze di vita, nel microcosmo di We are who we are, emozionalmente trasmesse da un cast giovane molto promettente.
Per Caitlin il corpo diventa una prigione. Le sue tendenze mascoline, la voglia di vestirsi come tale, lo sfogarsi facendo box, sparare con un simulatore militare, sono in contrasto con i suoi tratti femminili evidenti. Ecco che quindi arriva il momento di privarsi di una chioma voluminosa, di applicare della peluria sul viso, per manifestare liberamente ciò che vuole essere (o che pensa di voler essere).
“Senti mai che non appartieni a nessun posto?”
Danny, il fratello di Caitlin, comincia a nutrire un forte sentimento religioso. Danny sta annegando nell’inquietudine, ma vuole approfondire una conoscenza della fede musulmana, tentando di trovare delle risposte su sé stesso, affidandosi alla preghiera. Si confronta con il suo amico Craig, al quale si sente libero di sussurrare i propri dubbi esistenziali, tanto da chiedergli: “Senti mai che non appartieni a nessun posto?”.
L’ottima sceneggiatura, firmata da Paolo Giordano e Francesca Manieri (oltre che da Luca Guadagnino), è efficace a tal punto da non inciampare in troppi psicologismi; dunque non sono presenti troppi dialoghi in cui i personaggi ci rivelano apertamente i loro sentimenti, ma vengono messi in scena, con autenticità, tutti i comportamenti umani da cui possiamo trarre le relative conclusioni.
Ognuno dei personaggi mostra comportamenti che raccontano un universale tendenza dell’essere umano: la ricerca della definizione inconfutabile del proprio io. Ma questa certezza sembra un traguardo irraggiungibile, in quanto gli adulti mostrano una moltitudine di sfaccettature che causano spesso uno smarrimento identitario. Il tentativo non è, quindi, quello di dare una soluzione allo spettatore, né quello di rispondere alle domande "chi siamo?" e "chi sono i personaggi?", poiché la serie, fin dal titolo azzeccatissimo (d’effetto anche il sottotitolo: qui e ora), trasmette l’idea di dover affrontare un inevitabile viaggio di formazione della propria personalità che continua ben oltre la fase adolescenziale.
Guadagnino lascia spazio di espressione anche a cose apparentemente inanimate: gli oggetti. Durante la scena del party nella Villa dei Russi, una delle sequenze più riuscite della serie, la camera indugia, supportata da un montaggio alternato, sugli oggetti, conferendo loro una voce sottile che sussurra all’orecchio dello spettatore: le sigarette accumulate nel posa cenere, qualcuna dentro e qualcun’altra sparsa sui tavoli, la pentola sui fornelli, con i resti di spaghetti incrostati sul bordo, le bottiglie di birra, un calzino spaiato vicino al bordo della piscina, la tv e la console rimaste accese che mostrano l'avatar di un videogioco, immobile sott’acqua.
Tutto ciò che i ragazzi toccano è intriso di un’eterna giovinezza. Gli oggetti, quindi, fungono da strumenti del ricordo che catapultano lo spettatore in un vorticoso viaggio nei meandri dell’adolescenza.
Tra Fraser e Caitlin nasce un rapporto estremamente coinvolgente e alchemico, in cui l’uno si specchia nell’altro proprio perché esiste un’irrefrenabile attrazione per la diversità. Il folgorante incontro tra Fraser e Caitlin è il tentativo stesso di raccontare un rapporto che non ha nessuna definizione specifica, poiché essi sono al contempo amici, innamorati, alleati, fratello e sorella.
Luca Guadagnino dipinge, a suo modo, tutte le sfumature della generazione post 11 Settembre (com’è stato fatto, senza filtri, in Euphoria di Sam Levinson), restituendoci un’atmosfera delicata e spensierata, in una serie libera di mostrare tutte le complessità e le semplicità dell’adolescenza, e non solo. Il commovente finale dona allo spettatore la speranza di un futuro migliore, romantico, privo di pregiudizi e di etichette superflue, dominato dall’amore reciproco.
Matteo Malaisi