Antiviral
Antiviral
2012
Paesi
Canada, Francia
Generi
Horror, Fantascienza
Durata
108 min.
Formato
Colore
Regista
Brandon Cronenberg
Attori
Caleb Landry Jones
Sarah Gadon
Lisa Berry
Douglas Smith
Nenna Abuwa
Malcolm McDowell
In una società governata dalla comunicazione mass-mediatica, Syd March (Caleb Landry Jones) è un intraprendente venditore per la Lucas Clinic, azienda specializzata nella distribuzione di virus contratti dalle celebrità. Non appagato dal lavoro che svolge, inizia a contrabbandare malattie facendole uscire dalla clinica attraverso il proprio organismo. Un prelievo di sangue alla star Hannah Geist (Sarah Gadon), affetta da un nuovo e misterioso agente virale, dà il via a una pericolosa spirale di eventi dopo l’inaspettata notizia della morte della ragazza.
Brandon Cronenberg scrive e dirige il suo esordio richiamando la prima fase di carriera del padre. Il potere dell’immagine nel mondo contemporaneo costituisce la base per una riflessione che guarda oltre: dove può portare il cieco culto di celebrità sempre più idealizzate, personaggi alimentati dal frivolo e quotidiano bombardamento dei media? La narrazione si concentra sulla ricerca di un perché e trova una prima risposta nelle perverse logiche del mercato della notorietà che sfrutta chi ne cade vittima elogiando chi ne trae vantaggio. Syd, un intensissimo Caleb Landry Jones, va perdendosi proprio in questo limbo, tra fascinazione e arricchimento, trasmettendoci fisicamente, ancora prima che verbalmente, un profondo travaglio esistenziale. In questo mondo governato dalle logiche del profitto, l’individuo passa in secondo piano lasciando il campo a un merchandising che dagli oggetti di consumo passa alle strutture biologiche. Non è più sufficiente condividere emozioni ed esperienze tramite il piccolo, e grande, schermo, occorre provare direttamente, sulla propria pelle, il dolore di chi è quotidianamente sotto i riflettori. Non è un caso che la parola chiave sia quindi innovazione, in un immaginario tecnologico che fa rabbrividire e la cui asetticità viene suggerita attraverso l’accostamento di non-colori. È infatti il bianco a dominare in un film in cui agisce un pittore invisibile: come i tulipani che si tingono di rosse striature per l’avanzare di un’infezione virale, così la tela di Cronenberg si accende del tanto, troppo, sangue che sgorga dai corpi infetti. Un procedere per opposti che soffre dell’assenza di sfumature, in una gamma di sensazioni volutamente destabilizzanti che finiscono per cadere nello scivoloso terreno della prevedibilità. La scelta di affidare a Malcolm McDowell (il celebratissimo Alex DeLarge di Arancia Meccanica) un ruolo minore sembra poter rievocare la miglior tradizione del cinema distopico ma, come spesso succede nell’horror contemporaneo, mostrare troppo è sinonimo di suggerire troppo poco, comportando la perdita della componente visionaria che dovrebbe essere una delle prerogative essenziali del genere.
Brandon Cronenberg scrive e dirige il suo esordio richiamando la prima fase di carriera del padre. Il potere dell’immagine nel mondo contemporaneo costituisce la base per una riflessione che guarda oltre: dove può portare il cieco culto di celebrità sempre più idealizzate, personaggi alimentati dal frivolo e quotidiano bombardamento dei media? La narrazione si concentra sulla ricerca di un perché e trova una prima risposta nelle perverse logiche del mercato della notorietà che sfrutta chi ne cade vittima elogiando chi ne trae vantaggio. Syd, un intensissimo Caleb Landry Jones, va perdendosi proprio in questo limbo, tra fascinazione e arricchimento, trasmettendoci fisicamente, ancora prima che verbalmente, un profondo travaglio esistenziale. In questo mondo governato dalle logiche del profitto, l’individuo passa in secondo piano lasciando il campo a un merchandising che dagli oggetti di consumo passa alle strutture biologiche. Non è più sufficiente condividere emozioni ed esperienze tramite il piccolo, e grande, schermo, occorre provare direttamente, sulla propria pelle, il dolore di chi è quotidianamente sotto i riflettori. Non è un caso che la parola chiave sia quindi innovazione, in un immaginario tecnologico che fa rabbrividire e la cui asetticità viene suggerita attraverso l’accostamento di non-colori. È infatti il bianco a dominare in un film in cui agisce un pittore invisibile: come i tulipani che si tingono di rosse striature per l’avanzare di un’infezione virale, così la tela di Cronenberg si accende del tanto, troppo, sangue che sgorga dai corpi infetti. Un procedere per opposti che soffre dell’assenza di sfumature, in una gamma di sensazioni volutamente destabilizzanti che finiscono per cadere nello scivoloso terreno della prevedibilità. La scelta di affidare a Malcolm McDowell (il celebratissimo Alex DeLarge di Arancia Meccanica) un ruolo minore sembra poter rievocare la miglior tradizione del cinema distopico ma, come spesso succede nell’horror contemporaneo, mostrare troppo è sinonimo di suggerire troppo poco, comportando la perdita della componente visionaria che dovrebbe essere una delle prerogative essenziali del genere.
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