Il cucciolo d'elefante Jumbo jr., figlio di un'elefantessa da circo, viene preso in giro dagli altri animali della struttura per via delle sue orecchie giganti e soprannominato “Dumbo”. L'unico che prenderà a cuore il suo status di emarginato è il topolino Timoteo, dalla divisa rossa e dal cuore solidale.

Muto e dolcissimo, l'elefantino Dumbo segue l'arco di una parabola emblematicamente disneyana: l'ascesa al trionfo personale dopo un percorso tartassato da angherie e umiliazioni. Film di struggente bellezza realizzato dallo Studio per sopperire ai modesti incassi di Fantasia (1940), finirà per rappresentare uno degli esempi maggiormente significativi della poetica commerciale Disney: non per forza un'apologia ai buoni sentimenti tout court (che pure resiste), ma soprattutto un devotissimo e ispirato racconto d'umanità, nonostante le forme antropomorfe del protagonista e degli altri personaggi. Nel topo Timoteo, che aiuta Dumbo a superare gli ostacoli e a vivere felice, è racchiusa la lotta agli stereotipi, alle barriere e alle forme di incomunicabilità che troncano sentimenti di rispetto e amicizia. Impossibile non commuoversi quando Dumbo visita di notte la madre, imprigionata per averlo difeso con troppa veemenza, che lo culla con la proboscide. La sequenza dei rosa elefanti, visibili solo dopo aver bevuto dello champagne, è ormai iconica e un magnifico esempio di visionarietà sperimentale ai limiti dello psichedelico. Una metafora – bellissima – dell'esistenza tra circhi, vagoni treno e rivalse finali contro angherie e umiliazioni. Oscar alla miglior colonna sonora (a opera di Frank Churchill e Oliver Wallace), e premio speciale (miglior disegno animato) alla seconda edizione del Festival di Cannes. Indimenticabile.