Iddu – L'ultimo padrino
2024
In sala
dal 10/10
Paesi
Italia, Francia
Generi
Drammatico, Poliziesco
Durata
122 min.
Formato
Colore
Registi
Fabio Grassadonia
Antonio Piazza
Attori
Toni Servillo
Elio Germano
Daniela Marra
Barbora Bobulova
Giuseppe Tantillo
Fausto Russo Alesi
Antonia Truppo
Tommaso Ragno
Betti Pedrazzi
Filippo Luna
Rosario Palazzolo
Sicilia, primi anni Duemila. Dopo alcuni anni in prigione per mafia, Catello (Toni Servillo) politico di lungo corso, ha perso tutto. Quando i Servizi segreti italiani gli chiedono aiuto per catturare il suo figlioccio Matteo (Elio Germano), ultimo grande latitante di mafia in circolazione, Catello coglie l’occasione per rimettersi in gioco. Uomo furbo dalle cento maschere, instancabile illusionista che trasforma verità in menzogna e menzogna in verità, Catello dà vita a un unico quanto improbabile scambio epistolare con il latitante, del cui vuoto emotivo cerca di approfittare.
Dopo il noir autoriale Salvo (2013) e il più onirico Sicilian Ghost Story (2017), il duo di registi siciliani Antonio Piazza e Fabio Grassadonia scelgono coordinate più realistiche per raccontare la parola dell’ultimo boss stragista di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, a lungo latitante (dal 1993) e catturato nel gennaio 2023 prima di perdere la vita nel settembre dello stesso anno a causa della malattia di lungo corso che lo affliggeva. Ispirandosi ai pizzini del capomafia, in particolare ai suoi scambi epistolari con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino dei primi anni duemila, editi nel libro Lettere a Svetonio (2008) a cura di Salvatore Mugno, carteggio in cui Messina Denaro si firmava con lo pseudonimo di “Alessio”, Piazza e Grassadonia danno vita con Iddu - L’ultimo padrino a un film che tenta la carta del grottesco affidando a Servillo la centrale maschera ridicola di Catello, ex preside e amministratore locale abituato ad aggirarsi con disinvoltura in un cupo sottobosco all’insegna di una sfacciata assenza di coordinate morali. Il ritratto socio-antropologico che ne viene fuori è però costantemente in bilico sul crinale del macchiettistico, popolato da una ronda di personaggi che sono essenzialmente figurine bidimensionali non sempre in grado di acquisire spessore e tridimensionalità. Non convince appieno nemmeno il lavoro linguistico sul dialetto, gravato da alcune scelte di casting un po’ forzate, a cominciare da quella di Germano nei panni di Denaro, la cui mimesi linguistica risulta a dir poco affettata e forzata. Non sempre a fuoco è anche il personaggio di Servillo, del cui passato apprendiamo sempre troppo poco per mettere a fuoco le sue reali motivazioni e intenzioni, tanto da far perdere forza e potenza al disegno d’insieme e di navigare spesso a vista a ridotto della farsetta criminale. Se il lavoro di fantasia su vicende realmente accadute colpisce dunque nel segno fino a un certo punto, con la realtà a fare soltanto da punto di partenza e non da destinazione, come dichiarano gli autori nella didascalia iniziale, a colpire maggiormente sono alcuni elementi di pura regia e dunque di astrazione intorno alla figura di Messina Denaro, in particolare per quel riguarda il modo in cui viene evocato il suo rapporto di assoluta subalternità psichica e identitaria rispetto alla figura paterna, tratteggiato attraverso il simbolo siciliano del “pupo” come correlativo oggettivo di un’infanzia immediatamente violentata dalle stigmate del potere e investita di una missione nell’esercizio del potere mafioso e territoriale alla quale è impossibile abdicare: un esempio di quella cieca “fede” nei propri mezzi, e in un disegno criminoso da perseguire, che per citare il personaggio di Catello “inizia laddove la ragione finisce”. A stupire sono anche le belle musiche di Colapesce, ispirate in maniera assolutamente pertinente ai film di Elio Petri e Pietro Germi degli anni ‘60 e ‘70, ma la sensazione complessiva è che l’insieme dell’operazione si trinceri in un bozzettismo dai piedi d’argilla e con eccessivi elementi di rigidità di scrittura nel confronto a distanza tra i due personaggi principali. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024.
Dopo il noir autoriale Salvo (2013) e il più onirico Sicilian Ghost Story (2017), il duo di registi siciliani Antonio Piazza e Fabio Grassadonia scelgono coordinate più realistiche per raccontare la parola dell’ultimo boss stragista di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, a lungo latitante (dal 1993) e catturato nel gennaio 2023 prima di perdere la vita nel settembre dello stesso anno a causa della malattia di lungo corso che lo affliggeva. Ispirandosi ai pizzini del capomafia, in particolare ai suoi scambi epistolari con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino dei primi anni duemila, editi nel libro Lettere a Svetonio (2008) a cura di Salvatore Mugno, carteggio in cui Messina Denaro si firmava con lo pseudonimo di “Alessio”, Piazza e Grassadonia danno vita con Iddu - L’ultimo padrino a un film che tenta la carta del grottesco affidando a Servillo la centrale maschera ridicola di Catello, ex preside e amministratore locale abituato ad aggirarsi con disinvoltura in un cupo sottobosco all’insegna di una sfacciata assenza di coordinate morali. Il ritratto socio-antropologico che ne viene fuori è però costantemente in bilico sul crinale del macchiettistico, popolato da una ronda di personaggi che sono essenzialmente figurine bidimensionali non sempre in grado di acquisire spessore e tridimensionalità. Non convince appieno nemmeno il lavoro linguistico sul dialetto, gravato da alcune scelte di casting un po’ forzate, a cominciare da quella di Germano nei panni di Denaro, la cui mimesi linguistica risulta a dir poco affettata e forzata. Non sempre a fuoco è anche il personaggio di Servillo, del cui passato apprendiamo sempre troppo poco per mettere a fuoco le sue reali motivazioni e intenzioni, tanto da far perdere forza e potenza al disegno d’insieme e di navigare spesso a vista a ridotto della farsetta criminale. Se il lavoro di fantasia su vicende realmente accadute colpisce dunque nel segno fino a un certo punto, con la realtà a fare soltanto da punto di partenza e non da destinazione, come dichiarano gli autori nella didascalia iniziale, a colpire maggiormente sono alcuni elementi di pura regia e dunque di astrazione intorno alla figura di Messina Denaro, in particolare per quel riguarda il modo in cui viene evocato il suo rapporto di assoluta subalternità psichica e identitaria rispetto alla figura paterna, tratteggiato attraverso il simbolo siciliano del “pupo” come correlativo oggettivo di un’infanzia immediatamente violentata dalle stigmate del potere e investita di una missione nell’esercizio del potere mafioso e territoriale alla quale è impossibile abdicare: un esempio di quella cieca “fede” nei propri mezzi, e in un disegno criminoso da perseguire, che per citare il personaggio di Catello “inizia laddove la ragione finisce”. A stupire sono anche le belle musiche di Colapesce, ispirate in maniera assolutamente pertinente ai film di Elio Petri e Pietro Germi degli anni ‘60 e ‘70, ma la sensazione complessiva è che l’insieme dell’operazione si trinceri in un bozzettismo dai piedi d’argilla e con eccessivi elementi di rigidità di scrittura nel confronto a distanza tra i due personaggi principali. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024.
Iscriviti
o
Accedi
per commentare