The Mountain
The Mountain
2018
Paese
Usa
Genere
Drammatico
Durata
106 min.
Formato
Colore
Regista
Rick Alverson
Attori
Tye Sheridan
Jeff Goldblum
Hannah Gross
Denis Lavant
Udo Kier
Nell'America degli anni '50, un giovane introverso (Tye Sheridan) si unisce a un rinomato lobotomista (Jeff Goldlbum) che usa la sua specialità per curare le malattie mentali. Il giovane progressivamente inizia a identificarsi sempre più con i pazienti, tra cui la figlia di un leader carismatico nel nascente movimento New Age dell'Occidente, Susan (Hannah Gross). Il regista indipendente americano Rick Alverson (che ha anche una band musicale dal nome Spokane) prosegue lungo il suo orizzonte all’insegna dell'esplorazione intellettuale, che ha già avuto modo di confrontarsi, in passato, con procedimenti stilistici neorealisti e riflessioni sull’utopia americana, per addentrarsi stavolta in una complessa parabola scientifica e umana. Già premiato ai festival di Rotterdam e Locarno, Alverson orchestra anche in questo caso un film dal forte impianto simbolico, battezzato solo in partenza e solo in apparenza da una regia solida, come sembrerebbe suggerire il prologo segnato da colori autunnali, nel segno di Magritte (la cui eco tornerà di prepotenza anche più in là, ma che è già tutta nel titolo). Le premesse iniziali incoraggianti si sfaldano però immediatamente al cospetto di una messa in scena a circuito chiuso che si mostra a più riprese vacua e compiaciuta, confusa e pretenziosa, tra shock e turbamenti, fotografie dal sapore entomologico e attori usati come o come manichini rigidi (Sheridan, Goldblum) o spremuti all’eccesso fino all'inverosimile (Lavant). Le storture abbandono, ma la sensazione di vacuità e pretestuosità la fa quasi sempre da padrone e non bastano il senso pittorico del regista per l’immagine e la rigidità dei suoi tableaux vivants per giustificare il tono torvo, fastidioso e glaciale. Involontariamente ridicole parecchie sequenze, da quella di Goldblum sulla pista da bowling a praticamente tutte le scene in cui fa capolino Denis Lavant, letteralmente invasato e preda di un over-acting fuori misura, che lo porta alle soglie della sceneggiata napoletana. Il film vorrebbe essere una riflessione sul confine labile tra la realtà e la sua simulazione, tra vita e arte, tra la scienza e le sue mostruose deformazioni, con sullo sfondo una giovane sessualità monolitica e turbata, ma fallisce miseramente tutti i suoi (non pochi) intenti, limitandosi a far bruciare tutta la (troppa) carne che mette al fuoco abbandonandola al suo mesto destino. Piccola parte anche per Udo Kier. Presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2018.
Maximal Interjector
Browser non supportato.