Stardust
Stardust
2020
Paese
Gran Bretagna
Genere
Drammatico
Durata
109 min.
Formato
Colore
Regista
Gabriel Range
Attori
Johnny Flynn
Jena Malone
Marc Maron
Aaron Poole
Anthony Flanagan
Nel 1971, David Bowie (Johnny Flynn) ha ventiquattro anni, ha già realizzato Space Oddity ed è impegnato nella promozione del suo terzo disco, The Man Who Sold the World, l’album sulla follia. Intraprende il suo primo viaggio in America con Ron Oberman, addetto stampa della Mercury Records, ma il mercato statunitense non sembra ancora pronto per lui né tantomeno aver capito il suo potenziale.
Concentrandosi su un periodo molto preciso della vita di David Bowie, il regista Gabriel Range, anche autore della sceneggiatura insieme a Christopher Bell, concepisce in Stardust una sorta di origin story del Bowie più noto al grande pubblico, raccontandoci la sua giovinezza tormentata, divisa tra le resistenze del mercato americano, che si ostinava a considerarlo l’ennesimo hippie inglese fuori tempo massimo dopo lo scarso successo commerciale del suo ultimo album oscuro e psichedelico, e i fantasmi di una storia familiare largamente segnata da parenti malati di schizofrenia e dissociazione multipla della personalità. Proprio facendo i conti con questi detriti personali, e forse lasciandoseli alle spalle in parte o comunque sublimandoli, Bowie incarnerà nella sua lunga e rutilante carriera molti alter ego decisivi, come il Duca Bianco e Aladdin Sane, ma Stardust, come suggerisce il titolo, ci racconta in particolare l’anno che portò alla genesi della maschera più celebre di Bowie, il rocker alieno e pansessuale Ziggy Stardust, incarnazione trasgressiva, seducente e sregolata al centro dell’omonimo album capolavoro di Bowie, Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. La scelta di togliere dal titolo Ziggy e lasciare solo Stardust non è però affatto casuale, in termini evocativi: Bowie negli iconici panni dell’alieno occupa solo l’ultimo blocco del film, che per il resto è un viaggio sommesso, convenzionale e non sempre ispirato nell’interiorità dell’artista, nella polvere di stelle di gioventù e con ciò con cui ha dovuto fare i conti nella prima fase della sua carriera, quando tutto era ancora “paure e voci” prima di essere “sound e vision”, prima di affermarsi come uno dei cantanti più iconici e decisivi del XX secolo. Considerando anche l’impossibilità di utilizzare i brani di Bowie, non avendo gli eredi concesso i diritti (Duncan Jones, figlio regista dell’artista, ha dichiarato che non si tratta di un biopic e che la famiglia non è stata coinvolta nella realizzazione), Stardust evita ogni eccesso glam alla Velvet Goldmine (1998), che a Bowie s’inspirava liberamente ma con grande estro e inventiva, e si accontenta del compitino, lavorando con libertà narrativa non sempre legittimata, come preannunciato dal cartello iniziale che recita “ciò che segue è in gran parte fiction”. L’insieme non mostra particolari cedimenti ed è ben evidenziato il rapporto frammentato e problematico di Bowie con l’America (si pensi al brano, di fine anni ’90, I’m Afraid of Americans), ma l’esilità fa spesso capolino, la complessità sfavillante della figura di Bowie, capace di fare di se stesso il “messaggio” insito nella sua musica agghindata e onnivora di riferimenti, emerge a corrente molto alterna e i personaggi di contorno, come la moglie Angie interpreta da Jena Malone, non hanno particolare spessore. La prima sequenza, evocando Space Oddity, si rivolge a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, da cui Bowie fu ispirato per la scrittura della canzone, mentre la parte finale si ripiega in modo volenteroso ma rigido nei frammenti e nelle torsioni mentali della mente di Bowie e nei suoi nodi psicologici irrisolti, forse un po’ troppo romanzati a buon mercato. Evocati anche, a mo’ di raccolta di figurine, i legami di Bowie con Lou Reed e i Velvet Underground e Andy Warhol, tutte figure molto stimate da Bowie, che li capì in anticipo, in tempi non sospetti e con lucidità maggiore dei suoi contemporanei. Efficace interpretazione del musicista e attore Johnny Flynn, che svetta in particolare nella sequenza in cui Bowie racconta con sigaretta, occhi lucidi e voce tremante (molto buono il lavoro di mimesi vocale) i capisaldi della sua idea di musica, ricorrendo alle figure del clown, della prostituta vestita a festa e del pierrot della commedia dell’arte e precisando il rapporto tra l’uomo David Jones (il suo vero nome) e il superuomo Bowie. Fa specie, invece, che in un film ambientato nel 1971 non si citi mai Hunky Dory, uno dei gli albumi più belli e sottovalutati del cantante uscito nello stesso anno. Il regista Range è co-sceneggiatore di un altro film su un diverso capitolo della vita dell’artista, Lust for Life, sull’anno vissuto a Berlino Ovest con Iggy Pop, anch’egli sfiorato di passaggio in Stardust. Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2020.
Concentrandosi su un periodo molto preciso della vita di David Bowie, il regista Gabriel Range, anche autore della sceneggiatura insieme a Christopher Bell, concepisce in Stardust una sorta di origin story del Bowie più noto al grande pubblico, raccontandoci la sua giovinezza tormentata, divisa tra le resistenze del mercato americano, che si ostinava a considerarlo l’ennesimo hippie inglese fuori tempo massimo dopo lo scarso successo commerciale del suo ultimo album oscuro e psichedelico, e i fantasmi di una storia familiare largamente segnata da parenti malati di schizofrenia e dissociazione multipla della personalità. Proprio facendo i conti con questi detriti personali, e forse lasciandoseli alle spalle in parte o comunque sublimandoli, Bowie incarnerà nella sua lunga e rutilante carriera molti alter ego decisivi, come il Duca Bianco e Aladdin Sane, ma Stardust, come suggerisce il titolo, ci racconta in particolare l’anno che portò alla genesi della maschera più celebre di Bowie, il rocker alieno e pansessuale Ziggy Stardust, incarnazione trasgressiva, seducente e sregolata al centro dell’omonimo album capolavoro di Bowie, Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. La scelta di togliere dal titolo Ziggy e lasciare solo Stardust non è però affatto casuale, in termini evocativi: Bowie negli iconici panni dell’alieno occupa solo l’ultimo blocco del film, che per il resto è un viaggio sommesso, convenzionale e non sempre ispirato nell’interiorità dell’artista, nella polvere di stelle di gioventù e con ciò con cui ha dovuto fare i conti nella prima fase della sua carriera, quando tutto era ancora “paure e voci” prima di essere “sound e vision”, prima di affermarsi come uno dei cantanti più iconici e decisivi del XX secolo. Considerando anche l’impossibilità di utilizzare i brani di Bowie, non avendo gli eredi concesso i diritti (Duncan Jones, figlio regista dell’artista, ha dichiarato che non si tratta di un biopic e che la famiglia non è stata coinvolta nella realizzazione), Stardust evita ogni eccesso glam alla Velvet Goldmine (1998), che a Bowie s’inspirava liberamente ma con grande estro e inventiva, e si accontenta del compitino, lavorando con libertà narrativa non sempre legittimata, come preannunciato dal cartello iniziale che recita “ciò che segue è in gran parte fiction”. L’insieme non mostra particolari cedimenti ed è ben evidenziato il rapporto frammentato e problematico di Bowie con l’America (si pensi al brano, di fine anni ’90, I’m Afraid of Americans), ma l’esilità fa spesso capolino, la complessità sfavillante della figura di Bowie, capace di fare di se stesso il “messaggio” insito nella sua musica agghindata e onnivora di riferimenti, emerge a corrente molto alterna e i personaggi di contorno, come la moglie Angie interpreta da Jena Malone, non hanno particolare spessore. La prima sequenza, evocando Space Oddity, si rivolge a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, da cui Bowie fu ispirato per la scrittura della canzone, mentre la parte finale si ripiega in modo volenteroso ma rigido nei frammenti e nelle torsioni mentali della mente di Bowie e nei suoi nodi psicologici irrisolti, forse un po’ troppo romanzati a buon mercato. Evocati anche, a mo’ di raccolta di figurine, i legami di Bowie con Lou Reed e i Velvet Underground e Andy Warhol, tutte figure molto stimate da Bowie, che li capì in anticipo, in tempi non sospetti e con lucidità maggiore dei suoi contemporanei. Efficace interpretazione del musicista e attore Johnny Flynn, che svetta in particolare nella sequenza in cui Bowie racconta con sigaretta, occhi lucidi e voce tremante (molto buono il lavoro di mimesi vocale) i capisaldi della sua idea di musica, ricorrendo alle figure del clown, della prostituta vestita a festa e del pierrot della commedia dell’arte e precisando il rapporto tra l’uomo David Jones (il suo vero nome) e il superuomo Bowie. Fa specie, invece, che in un film ambientato nel 1971 non si citi mai Hunky Dory, uno dei gli albumi più belli e sottovalutati del cantante uscito nello stesso anno. Il regista Range è co-sceneggiatore di un altro film su un diverso capitolo della vita dell’artista, Lust for Life, sull’anno vissuto a Berlino Ovest con Iggy Pop, anch’egli sfiorato di passaggio in Stardust. Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2020.
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