The Velvet Underground
The Velvet Underground
2021
Paese
Usa
Genere
Documentario
Durata
110 min.
Formato
Colore
Regista
Todd Haynes
Storia e opere dei Velvet Underground, gruppo rock statunitense formatosi nel 1964 e attivo fino al 1973, tra le band rock più influenti della storia della musica.
The Velvet Underground, documentario diretto dal regista Todd Haynes, non si limita affatto a narrare le gesta artistiche di Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Angus MacLise prima e Maureen “Moe” Tucker poi, ma tenta, con gli strumenti propri del cinema, di tradurle in immagini. Nelle mani del cineasta di Io non sono qui (2007), che nel corso della sua carriera ha già dato prova di spiccata sensibilità per le sette note, la parabola di questi musicisti che hanno segnato un “prima” e un “dopo” diventa infatti qualcosa di più di una radiografia del mito e delle sue tante influenze culturali e artistiche, così marcate e permeate dalla propria epoca da assurgere, a tutti gli effetti, a oggetto di rilevanza storica incalcolabile. Haynes essenzialmente mette ordine nel vissuto e nello stile dei Velvet Underground con una confezione che replica pedissequamente lo sperimentalismo del gruppo e il contesto, a dir poco decisivo e dinamitardo, in cui esso conobbe la ribalta, ovvero la New York degli anni ’60: abbondano dunque gli split screen, nei quali cui i volti evocano rimanendo statici e le immagini creano un turbinio di stimoli, i materiali d’archivio e sopratutto la restituzione del clima della sottocultura gay newyorkese del periodo. Un aspetto, quest’ultimo nient’affatto marginale e che lo sguardo di Haynes provvede ad “autorializzare” con dolcezza e devozione, inserendolo agilmente nella propria poetica ma senza aggirare l’ostacolo di tutte le altre altre (non poche e non indifferenti) implicazioni coinvolte. Il risultato è un lavoro a tratti eccessivamente compilativo, cui avrebbe giovato ad esempio la via di fuga epidermica dell’utilizzo di qualche live in più, ma assolutamente in grado di catturare il sincretismo e le interconnessioni - elettriche, dissonanti, malinconiche - care all’oggetto del racconto, solo in parte appesantite da un uso eccessivo delle interviste quanto il più filologiche ed ecumeniche possibile. Sullo sfondo, ma neanche troppo, si stagliano ovviamente anche le figure di Andy Warhol e Nico, alle quale bastano delle fugaci e brevilinee apparizioni accanto a Lou Reed (come nell’emblematico finale) per farsi presenze ingombranti e nient’affatto silenti o di contorno. Tra le personalità intervistate anche il regista John Waters, mentre la dedica finale è un altro grande nome di quella fase storica anch’egli coinvolto nelle dissertazioni intellettuali del film, ovvero il cineasta Jonas Mekas, che come ricorda la didascalia conclusiva “dedicò tutta la sua vita al cinema sperimentale”. Presentato Fuori Concorso al Festival di Cannes 2021.
The Velvet Underground, documentario diretto dal regista Todd Haynes, non si limita affatto a narrare le gesta artistiche di Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Angus MacLise prima e Maureen “Moe” Tucker poi, ma tenta, con gli strumenti propri del cinema, di tradurle in immagini. Nelle mani del cineasta di Io non sono qui (2007), che nel corso della sua carriera ha già dato prova di spiccata sensibilità per le sette note, la parabola di questi musicisti che hanno segnato un “prima” e un “dopo” diventa infatti qualcosa di più di una radiografia del mito e delle sue tante influenze culturali e artistiche, così marcate e permeate dalla propria epoca da assurgere, a tutti gli effetti, a oggetto di rilevanza storica incalcolabile. Haynes essenzialmente mette ordine nel vissuto e nello stile dei Velvet Underground con una confezione che replica pedissequamente lo sperimentalismo del gruppo e il contesto, a dir poco decisivo e dinamitardo, in cui esso conobbe la ribalta, ovvero la New York degli anni ’60: abbondano dunque gli split screen, nei quali cui i volti evocano rimanendo statici e le immagini creano un turbinio di stimoli, i materiali d’archivio e sopratutto la restituzione del clima della sottocultura gay newyorkese del periodo. Un aspetto, quest’ultimo nient’affatto marginale e che lo sguardo di Haynes provvede ad “autorializzare” con dolcezza e devozione, inserendolo agilmente nella propria poetica ma senza aggirare l’ostacolo di tutte le altre altre (non poche e non indifferenti) implicazioni coinvolte. Il risultato è un lavoro a tratti eccessivamente compilativo, cui avrebbe giovato ad esempio la via di fuga epidermica dell’utilizzo di qualche live in più, ma assolutamente in grado di catturare il sincretismo e le interconnessioni - elettriche, dissonanti, malinconiche - care all’oggetto del racconto, solo in parte appesantite da un uso eccessivo delle interviste quanto il più filologiche ed ecumeniche possibile. Sullo sfondo, ma neanche troppo, si stagliano ovviamente anche le figure di Andy Warhol e Nico, alle quale bastano delle fugaci e brevilinee apparizioni accanto a Lou Reed (come nell’emblematico finale) per farsi presenze ingombranti e nient’affatto silenti o di contorno. Tra le personalità intervistate anche il regista John Waters, mentre la dedica finale è un altro grande nome di quella fase storica anch’egli coinvolto nelle dissertazioni intellettuali del film, ovvero il cineasta Jonas Mekas, che come ricorda la didascalia conclusiva “dedicò tutta la sua vita al cinema sperimentale”. Presentato Fuori Concorso al Festival di Cannes 2021.
Iscriviti
o
Accedi
per commentare
Dallo stesso regista
Amazon Prime Video
Il
9 ottobre
Sky Cinema Uno
21:15