Un divano a Tunisi
Un Divan à Tunis
2019
Chili
Paesi
Francia, Tunisia
Genere
Commedia
Durata
88 min.
Formato
Colore
Regista
Manele Labidi
Attori
Golshifteh Farahani
Majd Mastoura
Aïsha Ben Miled
Feryel Chammari
Hichem Yacoubi
Selma Derwich (Golshifteh Farahani), psicanalista trentacinquenne, lascia Parigi per aprire uno studio nella periferia di Tunisi, dov'è cresciuta. Ottimista sulla missione, sdraiare sul lettino i suoi connazionali e rimetterli al mondo all'indomani della rivoluzione, Selma deve scontrarsi con la diffidenza locale, l'amministrazione indolente e un poliziotto troppo zelante che la boicotta. A Tunisi, dove la gente si confessa nelle vasche dell'hammam o sotto il casco del parrucchiere, Selma offre una terza via, un luogo protetto per prendersi cura di sé e prendere il polso della città.
La regista francese di origine tunisina Manele Labidi si avvale, in Un divano a Tunisi, di un personaggio principale che rispecchia perfettamente le sue origini a cavallo tra due identità nazionali molto precise, ma anche forzate a sfumarsi e confondersi l’una nell’altra. La Selma interpretata dalla sempre magnetica Golshifteh Farahani è infatti una donna molto interessante, fumatrice incallita e ostinata nel riproporsi, in forma ruvida e dialettica, all’interno di una comunità sulla carta ostile ma anche tutt’altro che insensibile al richiamo della sua figura, che attraverso la psicanalisi prova a rimettere ordine nei cocci di una nazione frantumata e pienamente invischiata in un processo di riedificazione identitaria ancor prima che politica e sociale. Un divano a Tunisi affronta un tema non facile con una certa dose di amara leggerezza, giocandosi la carta di una commedia agrodolce e non di rado pensosa, sicuramente “all’europea”: i sorrisi quando ci sono sono flebili e vanno a braccetto con la riflessione antropologica, anche se alla lunga l’impianto narrativo mostra la corda e i personaggi, con i loro tic comunque sintomatici, curiosi e vitali, diventano fin troppi e la freschezza dell’operazione un po’ va dispersa. Tra i tanti caratteri, dalla ragazza androgina e bisessuale al poliziotto ispido ma innamorato a suo modo di Selma, si segnala la parrucchiera e proprietaria di un salone di bellezza Baya, che durante la prima seduta con Selma la definisce “spocchiosa post-coloniale”. Così come è molto azzeccato il ritratto di Freud con copricapo arabo presente nello studio della protagonista, un po’ come padre putativo cui rivolgersi ma soprattutto come spada di Damocle dal cui giogo c’è anche bisogno di affrancarsi per approdare a nuove forme di consapevolezza, mentre convince decisamente meno il frequente ricorso a musiche extra-diegetiche un po’ invadenti e stonate, che sfociano in un finale slabbrato ed epidermico. Il ritratto intimamente corale di una Tunisia post - Rivoluzione dei Gelsomini, risalente a circa dieci anni prima rispetto alla realizzazione del film (il biennio è quello del 2010-2011), colpisce comunque nel segno e Un divano a Tunisi ha prerogative a sufficienza per risultare un prodotto popolare nel senso più nobile del termine. In colonna sonora anche Città vuota di Mina.
La regista francese di origine tunisina Manele Labidi si avvale, in Un divano a Tunisi, di un personaggio principale che rispecchia perfettamente le sue origini a cavallo tra due identità nazionali molto precise, ma anche forzate a sfumarsi e confondersi l’una nell’altra. La Selma interpretata dalla sempre magnetica Golshifteh Farahani è infatti una donna molto interessante, fumatrice incallita e ostinata nel riproporsi, in forma ruvida e dialettica, all’interno di una comunità sulla carta ostile ma anche tutt’altro che insensibile al richiamo della sua figura, che attraverso la psicanalisi prova a rimettere ordine nei cocci di una nazione frantumata e pienamente invischiata in un processo di riedificazione identitaria ancor prima che politica e sociale. Un divano a Tunisi affronta un tema non facile con una certa dose di amara leggerezza, giocandosi la carta di una commedia agrodolce e non di rado pensosa, sicuramente “all’europea”: i sorrisi quando ci sono sono flebili e vanno a braccetto con la riflessione antropologica, anche se alla lunga l’impianto narrativo mostra la corda e i personaggi, con i loro tic comunque sintomatici, curiosi e vitali, diventano fin troppi e la freschezza dell’operazione un po’ va dispersa. Tra i tanti caratteri, dalla ragazza androgina e bisessuale al poliziotto ispido ma innamorato a suo modo di Selma, si segnala la parrucchiera e proprietaria di un salone di bellezza Baya, che durante la prima seduta con Selma la definisce “spocchiosa post-coloniale”. Così come è molto azzeccato il ritratto di Freud con copricapo arabo presente nello studio della protagonista, un po’ come padre putativo cui rivolgersi ma soprattutto come spada di Damocle dal cui giogo c’è anche bisogno di affrancarsi per approdare a nuove forme di consapevolezza, mentre convince decisamente meno il frequente ricorso a musiche extra-diegetiche un po’ invadenti e stonate, che sfociano in un finale slabbrato ed epidermico. Il ritratto intimamente corale di una Tunisia post - Rivoluzione dei Gelsomini, risalente a circa dieci anni prima rispetto alla realizzazione del film (il biennio è quello del 2010-2011), colpisce comunque nel segno e Un divano a Tunisi ha prerogative a sufficienza per risultare un prodotto popolare nel senso più nobile del termine. In colonna sonora anche Città vuota di Mina.
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