Regista, sceneggiatore, produttore e attore italiano, da sempre anche interprete dei suoi film: Nanni Moretti, nato il 19 agosto del 1953, è uno degli autori più importanti del nostro cinema, ancora capace di mettersi in gioco, come ha dimostrato con Tre piani, primo lungometraggio a non nascere da un suo soggetto.
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In occasione dell'uscita al cinema di Tre piani, ecco la nostra classifica dei suoi 5 film migliori:
5) Habemus Papam (2011)
Un’opera umanissima e laica, proprio come lo era La messa è finita (1985), unico precedente contatto di Moretti con tematiche religiose. Le vicende di un Papa regolarmente eletto in conclave, ma spaesato di fronte all’enormità dell’impegno che gli è richiesto, sono un manifesto perfetto e inarrivabile, sia per visionarietà che per azzardata concretezza, dell’incertezza del tempo presente, caratterizzato dall’esitazione come categoria costitutiva della contemporaneità. Michel Piccoli è eccellente in un’interpretazione di docile maestria, semplicemente perfetto nel donare al suo Pontefice tutte le imperfezioni necessarie a restituire la complessità del personaggio. L’urlo finale è la certificazione di un’assenza, di un sipario che si chiude, di una risposta che non può esserci.
Uno dei film più laici e distesi di Moretti, in cui la disperazione e il senso di inadeguatezza di una generazione affiorano, passo dopo passo, quasi timidamente e senza i modi edulcorati dei suoi lavori precedenti. L’abituale senso di crisi che si respira nel cinema dell’autore è visto stavolta attraverso la lente di un uomo di fede decisamente sui generis, che non nasconde posture e atteggiamenti tipici del Moretti attore e regista. Nel film ogni possibile eccesso è incanalato nella giusta direzione: emerge così uno spaccato delicato ma aspro sulle umane miserie collettive, dinanzi alle quali la consolazione dell’esercizio religioso si conferma strumento inappropriato. Moretti però non giudica, semmai problematizza, con la giusta distanza e un sobrio rigore che si evince anche nelle scene più iconiche (e ironiche). Meritato Orso d’argento a Berlino.
3) La stanza del figlio (2001)
Un esempio magistrale di cinema del dolore, in cui la temperatura emotiva è sempre sorvegliata e mai urlata, con una gestione ammirevole di una materia controversa e scivolosa. In parte è una risposta a quanti accusavano Moretti di fare cinema solo su se stesso e per stesso, ma la realtà è molto più complessa: è la sfida, campale e impegnativa, di un autore ambizioso che s’è messo in testa l’obiettivo di sfidare anche il tabù del lutto, ma con umiltà e senza il petto in fuori di chi la sa lunga. I risultati, non a caso, sono misurati, equilibrati, senza una virgola fuori posto, guidati dal pudore della grazia e dalla delicatezza dell’umanità. Si soffre e ci si commuove, ma trattenendo il respiro e stringendo il cuore, di certo non piangendo copiosamente. La cantata in macchina di tutta la famiglia sulle note di Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli, già presente in Bianca (1984), ha fatto scuola nel cinema italiano successivo, in maniera quasi eccessiva. Memorabile il finale, con la famiglia che accompagna Arianna, la fidanzatina di Andrea, fino al confine francese, e Moretti che ascolta la commovente By This River di Brian Eno, che da diegetica diventa extradiegetica. Palma d’oro a Cannes.
2) Caro diario (1993)
Tre episodi: nel primo, In Vespa, Moretti, per la prima volta nei panni di se stesso e non del suo alter-ego Apicella, girovaga per le strade di Roma sul suo mezzo preferito; nel secondo, Isole, si reca alle Eolie; nel terzo, Medici, racconta di una sua personale odissea sanitaria. Poche cose, nel cinema di Moretti, sono irrinunciabili come la prima parte di quest’opera tripartita che è anche il suo film più sfuggente e teorico, il più scevro di mascheramenti, uno dei più narcisi ma anche una delle sue opere più riuscite. In Caro diario, infatti, la scrittura cinematografica si fa racconto in presa diretta di sé e, per l’appunto, diario privato, in apparenza senza più i filtri della finzione, ma allo stesso tempo capace di non rinunciare agli strumenti propri della narrazione per immagini e della personalissima idea di cinema del regista. A bordo della sua vespa, Moretti ritrae una Roma impalpabile e allo stesso tempo reinventata, che si svela a piccole ma sostanziose dosi, in bilico tra la confessione intima e la catalogazione sociale, geografica, di quartiere, e perfino filmica, con allusioni frequenti alle sue passioni ma soprattutto ai suoi disamori di spettatore. Memorabile intro sulle note, tra gli altri, di Leonard Cohen e, ancor più indimenticabile, il sipario del primo segmento ambientato all’Idroscalo di Ostia, luogo dove fu ucciso Pasolini, sulle sonorità sommesse e commosse del Köln Concert di Keith Jarrett (un momento di cinema filmato con naturalezza, che colpisce dritto al cuore). Gli altri due episodi si pongono invece a debita distanza, volutamente e con intelligenza, dalla generosità inventiva e situazionista della prima parte, andandosi a collocare però tra i momenti di morettismo più personali ma anche più sinceri di tutta la carriera del regista. Premio per la miglior regia a Cannes.
1) Bianca (1984)
Il film della maturità di Moretti devia per una volta dall’abituale pista del grottesco e dell’autoritratto in forma nevrotico-satirica, per inoltrarsi completamente nella dimensione, più complessa e sfaccettata, del dramma psicologico. L’aspetto più folgorante di Bianca sta proprio nel fatto che il “morettismo” (vale a dire tutto il corredo di trovate e soluzioni spesso surreali care all’autore) non viene messo da parte ma, semmai, è sublimato. Con un controllo incredibile, verrebbe da dire quasi clinico, di personaggi, situazioni e rapporti umani, così sulfureo ma allo stesso tempo delicato da spingerlo alle soglie del capolavoro. Una delle prove del Moretti attore più dense di ombre e sfumature, che stavolta incarna un personaggio “vero” da recitare, che va oltre la parodia di se stesso. Bianca porta la riflessione morettiana sul moralismo a livelli altissimi, attraverso una struttura narrativa impeccabile, e con profonde stoccate ai ciechi meccanismi sociali che stritolano le umane debolezze.