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Tutto quello che avremmo voluto sapere su Woody Allen (e abbiamo trovato nella sua autobiografia)
A proposito di niente, l’autobiografia di Woody Allen edita da La Nave di Teseo, si apre con un riferimento al giovane Holden (e David Copperfield) e passa subito al racconto dell’infanzia e della vita di Woody. Tra le pagine del libro è possibile accostarsi alla voce diretta del regista newyorkese: un accompagnatore d’eccezione nelle pieghe di un’esistenza che egli stesso descrive come routinaria e poco esaltante, cosa che oltretutto non ha mai mancato di sottolineare in altre circostanze pubbliche; glissando, al contempo, sul fatto che qualcuno possa ritenerlo un genio, contrariamente all’opinione di tanti. Perché Woody Allen, come non manca di precisare, ritiene di stare a Mozart e Leonardo al massimo come un presidente del consiglio scolastico starebbe al presidente degli Stati Uniti.

“Gente, state leggendo l’autobiografia di un misantropo ignorante e patito di gangster; di un solitario incolto che se ne stava davanti a uno specchio a tre ante a fare esercizi con un mazzo di carte per nascondere un asso di picche nel palmo della mano, renderlo invisibile da qualunque angolazione e gabbare qualche ingenuo. Certo, alla fine venni travolto dalle massicce mele di Cézanne e dai piovosi boulevard di Pissarro ma, ripeto, solo perché bigiavo (a scuola, ndr) e avevo bisogno di un riparo in quelle gelide mattine invernali”.


L’infanzia di Woody, pur nei suoi contorni ovviamente sfocati dal tempo, si presenta come un regno dell’immaginario in cui risaltano a chiare lettere tutte le passioni che confluiranno nella mitologia alleniana, a cominciare da quella fascinazione ingenua e viscerale per il cinema che accarezzerà tutta la sua produzione: l’amore per le champagne comedies, che si potevano vedere in sala per 12 centesimi (spesso con un doppio spettacolo); le musiche di Gershwin e Irving Berlin; l’illusionismo come consolatoria e primordiale pulsione verso la fuga dalla realtà; e naturalmente quella New York che Woody contribuirà a rendere uno dei fondali più memorabili del XXI secolo. Anche se sul successo di Manhattan è Allen stesso a dirsi sorpreso, con quella misantropia che è per lui balsamo costante e conforto feroce.

“Bogart, Cagney, Edward G. Robinson, Rita Hayworth: era il loro mondo di celluloide che imparavo. Esagerato, superficiale, falsamente sontuoso – ma non rimpiango un solo fotogramma. Quando mi chiedono quale personaggio dei miei film mi assomiglia di più, dico sempre di dare un’occhiata a Cecilia nella Rosa purpurea del Cairo”.


La Grande Mela, per Allen, non è altro che un tassametro (oggetto a lui caro in chiave poetica) della sua ordinarietà, la compagna di viaggio perfetta per una buona dose di frenetica misantropia mista ad appannato understatement. Ma anche un vettore di gioia primordiale, soprattutto in quei “giorni di pioggia a New York” in cui c’è un cielo grigio da osservare dalla finestra, per smarrire ogni malanno con un torpore prossimo alla malinconia. Le pagine in cui Allen descrive la sua giovinezza, coi primi passi nella stand-up comedy e le varie tappe dei suoi esordi scalcagnati nello show business, sono tra le più preziose del libro: una miniera di informazioni e spunti d’epoca, soprattutto musicali, ma anche un laboratorio ante litteram dei suoi metodi di creazione estemporanei e nient’affatto pretenziosi, che confluiranno nella sua proverbiale prolificità da quasi un film all'anno. 

“Ero diventato un prestigiatore dilettante perché non c’era niente che amassi più dell’illusionismo. Mi era sempre piaciuto tutto ciò che richiedeva isolamento, come esercitarsi nei giochi di prestigio, suonare uno strumento o scrivere; era un modo per evitare di avere contatti con gli altri esseri umani, che non mi piacevano né mi ispiravano fiducia – senza che ci fosse un motivo particolare (…) Lì per lì non pensavo di avere qualche chance come comico, ma solo di essere un illusionista fallito. (…) Mi pare che l’unica speranza dell’umanità risieda nell’illusione. Ho sempre odiato la realtà, ma è l’unico posto dove si trovino gustose ali di pollo”.


Oggi, mentre scrive A proposito di niente, Woody ha 84 anni, sta preparando il suo nuovo film, Rifkin’s Festival, ma soprattutto è alle prese con le ferite ancora vivide del clamore mediatico che l’ha investito a seguito dei nuovi attacchi subiti dalla famiglia Farrow, nella fattispecie della figlia Dylan e dell’ex compagna e musa Mia. Fatti spiacevoli e arcinoti, in passato già archiviati dagli organi preposti, e che Allen nel libro provvede a riportare a una dimensione di realtà e di documentazione giuridica (dal suo punto di vista, naturalmente), dedicando a essi una parte legittimamente corposa e altrettanto dolorosa del racconto della sua vita e avvalendosi spesso delle testimonianze del figlio Moses, schierato a suo sostegno. 

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Al cospetto di questa temperie, la proverbiale capacità di Woody Allen di sdrammatizzare dinanzi al turbinoso e insensato fluire dell’esistenza, tra acciacchi dell’animo e disincanto della mente, forse arretra e tentenna, ma non si dimostra mai scalfita del tutto. Tale sentimento dona alle sue pagine un’assenza di retorica, probabilmente non restituibile in queste righe, che gli alleniani più affezionati riconosceranno immediatamente come qualcosa di suo e forse anche nostro. Nella misura in cui, attraverso i decenni e per tramite del suo cinema, abbiamo imparato ad appropriarci di tale brio pessimista ma vitale nello stare al mondo, senza per questo negarne le storture, gli inciampi, i paradossi comunque irrinunciabili. 

E nel caso di Allen un po’ continuerà a valerne ancora la pena, almeno finché ci sarà la possibilità di guardare in televisione lo sport a fine giornata (staccando rigorosamente dal set alle cinque del pomeriggio, mica come Coppola e Scorsese), avere accanto la moglie Soon-Yi, rivedere per l’ennesima volta Un tram che si chiama desiderio e suonare (male) il clarinetto in giro per il mondo, riempiendo i concerti in virtù della sua fama cinematografica e non certo per il suo talento da musicista. 

Del suo legame con Mia Farrow rimane, oltre all’abbrutimento di una relazione pervertita dal flusso degli eventi, anche qualche postilla folgorante, come quando Woody ricorda che fu lei ad accompagnarlo a rendere omaggio alla salma di Thelonious Monk: “Era da poco che ci frequentavamo, e accondiscese alla mia richiesta malgrado lo sconcerto; avrebbe dovuto capire subito che stava mettendosi con la persona sbagliata, ma fuoco e fiamme vennero dopo”. Le altre donne della vita di Allen, come la prima moglie Harlene e la seconda Louis Lesser, sono descritte con maggiore generosità, anche negli anfratti più dolorosi e scomodi del privato, ma è ovviamente all’ex fidanzata, amica e consigliera di una vita, Diane Keaton, che Woody regala le pagine più repentine ma anche più esaltanti; sul piano della complicità, dell’affetto, della sinergia di vedute e dell’empatia che il tempo non ha mai scalfito.

“Si chiamava Diane Keaton. Il suo vero nome era Diane Hall, ma c’era già un’attrice che si chiamava così, e il sindacato non permette casi di omonimia. Così, dopo cotanta presentazione, siamo in attesa del provino di questa Keaton. Sul palcoscenico si presenta una ragazza smilza. Penso che, se Huckleberry Finn fosse stato una bella ragazza, sarebbe stato così. (…) Grande in tutti i sensi. Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale. Adorabile, spiritosa, con uno stile tutto suo, autentica, spontanea”.

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Il cuore di A proposito di niente è forse tutto qui, in un generoso taccuino di appunti sulla sua vita e sulle sue sensazioni istantanee, dispiegate con un disinteresse non solo apparente ma anche sostanziale: una sincera disaffezione non solo per quello che i posteri penseranno e diranno dei suoi film, ma anche per tutto il resto. Per tacere, ovviamente, di quel senso di svagata ma lucida indifferenza che si traduce, per Woody, in uno sguardo sul mondo fatto di paradossi, nevrosi, minuzie, slanci filosofici proposti in forma di battute a effetto. 

Allen non glissa sulle sue mancanze di spettatore e lettore e anzi le sottolinea (“Non ho mai visto l’Amleto a teatro. Non ho mai visto Piccola città. Non ho mai letto Ulisse, Don Chisciotte, Lolita, Comma 22, 1984. Mai letto una riga di Virginia Woolf, E.M. Forster, D.H. Lawrence; lo stesso vale per Dickens e le sorelle Brontë”) e soprattutto tende a diffidare tanto della critica quanto del pubblico (“L’inferno sono gli altri, ha detto Sartre. Preciserei: L’inferno sono i gusti degli altri”). Non tanto per snobismo, quanto, almeno stando a quanto scrive, per mera sopravvivenza, sapendo già di non essere uno sprovveduto e di non essere Einstein. Il medesimo quieto vivere che lo porta a non fare mai troppe inquadrature da tenere come alternative al montaggio, a staccare presto dal suo lavoro quotidiano come fosse un impiegato del catasto, per potersi godere il divano, la sua famiglia e le partite in santa pace.

Alcuni degli aneddoti più belli e taglienti di A proposito di niente sono dedicati poi a Pauline Kael, grande e celebrata critica cinematografica del New Yorker (“Una volta le dissi che secondo me aveva tutti i requisiti di un grande critico: una conoscenza enciclopedica del cinema, passione, uno stile fantastico, ma zero gusto”). Ma la demistificazione non risparmia nemmeno i venerati maestri del cinema, dagli amati Bergman e Fellini passando per Truffaut, riverdandosi in micro-narrazioni folgoranti lontani da altari di circostanza (merce rara, di questi tempi, ma non per Woody). La più ragguardevole è forse la seguente: “Ho passato un bel po’ di tempo con Michelangelo Antonioni, amicissimo di Carlo Di Palma: un artista grande e freddo. Privo di senso dell’umorismo. Gli era venuta un’idea per una commedia con Jack Nicholson, e gliel’aveva raccontata. Quest’ultimo si era messo a sghignazzare. “Ridi perché la trovi divertente?” gli aveva chiesto Antonioni. La risposta: “No, rido perché pensi che sia una commedia”.

E alla fine della fiera, o per meglio dire al culmine di questa ruota delle meraviglie che è la lettura della sua autobiografia (probabilmente checché ne dica o ne pensi lui, che ritiene tra l’altro quello con Kate Winslet girato a Coney Island appena tre anni fa il suo miglior film di sempre), spetta proprio al narratore regalarci un sontuoso epitaffio in forma di autoritratto comico in tonalità minore. Una sintesi solo apparentemente dimessa, che potrebbe sapere di falsa modestia e invece somiglia più a una presa di coscienza dell’inconsistenza (sua e nostra, ancora una volta) dinanzi agli arditi e crudeli meccanismi dell’universo. Specie alla luce del fatto che, nonostante i 48 film in 54 anni di carriera, l’unico vero rimpianto della vita di Woody Allen rimane quello di non aver mai girato un vero capolavoro.

“Come Bertrand Russell, provo una profonda tristezza per il genere umano. A differenza di Bertrand Russell, non sono bravo in matematica. E forse non sono in grado di trasmutare la mia sofferenza in grande arte o in grande filosofia, ma sono capace di scrivere delle buone battute che per un attimo possono distrarre e arrecare un breve sollievo alle irresponsabili conseguenze del big bang”. 


Davide Stanzione

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