Bong Joon-ho è senza dubbio tra i registi più interessanti del cinema orientale. Il cineasta sudcoreano, pur variando fra diversi generi è sempre riuscito ad imprimere il suo stile e la sua poetica, con opere memorabili. Una filmografia ricca, che vede anche la collaborazione con Léos Carax e Michel Gondry per Tokyo! e culminata con Parasite premiato con la Palma d'oro al Festival di Cannes 2019 e trionfatore assoluto agli Oscar 2020.
In occasione del suo compleanno, ecco la classifica delle sue opere, dalla peggiore alla migliore:
Raccontando l'avvenuta (a tratti fiabesca) di un'amicizia tra un mostro e una giovane fanciulla, il regista coreano lancia un messaggio semplice e genuino mirato a innalzare i valori dei sentimenti in un mondo completamente sottomesso alla logica del denaro: tematiche non distanti, anche per la critica al sistema a stelle e strisce e per contenuti fortemente ambientalisti, da quelle di The Host (2006), il suo terzo lungometraggio.
6) Barking Dogs Never Bite (2000)
L'esordio alla regia di Bong Joon-ho, tra i massimi alfieri del cinema coreano d'inizio nuovo millennio, è un curioso film pieno di irascibilità quasi parodica e di nevrosi latenti, di desideri irrealizzati cui corrispondono pulsioni potenzialmente letali. Un'opera multiforme e buffa nella quale l'atmosfera si mantiene sospesa, a seconda delle specifiche situazioni, tra il grave e il sulfureo e dove tutto appare sapientemente in bilico tra la commedia all'acido muriatico, il dramma sociale e la parabola sull'ordinaria oltre che tragica follia di un uomo come tanti altri.
5) Snowpiercer (2013)
Un'opera di spiccata intelligenza, in grado di far dialogare e convivere la confezione esplosiva e post-apocalittica di un film ad alto budget e la profondità di una riflessione non banale sulla condizione umana, sulle sue gerarchie, sulle prevaricazioni che ne scandiscono le relazioni. Un film secco ed essenziale, ma anche avvolgente e coinvolgente, che non si perde in futili divagazioni distopiche e ha le idee molto chiare su ciò che intende raccontare, sfoggiando una padronanza del mezzo tecnico che lascia stupefatti.
Il terzo lungometraggio di Bong Joon-ho è un disaster movie di enorme impatto e dalla confezione assai curata, che esalta le potenzialità del genere attraverso una messa in scena efficacissima, in grado come pochi altri esperimenti analoghi di coniugare spettacolarità e densità tematica, immedesimazione dello spettatore e tensione vibrante. La prima parte, anziché affidarsi subito alla carneficina inarrestabile del mostro come sentiero da battere senza pensarci due volte, si avvale dell'attesa come motore massimo dello stupore cinematografico, soffermandosi sulle psicologie, sulla famiglia protagonista, sui rapporti tra i personaggi e ciò che inevitabilmente muta e si riconfigura con l'insorgere di un pericolo così immane.
3) Memorie di un assassino – Memories of Murder (2003)
La pellicola di Bong, sotto la superficie del thriller poliziesco e d'atmosfera, addensa le ombre di un paese e le contraddizioni di una prassi investigativa che, esattamente come il potere costituito, molto spesso non rispetta l'autenticità dell'individuo. L'indagine, così aleatoria, ripiegata su se stessa e priva di solide basi, si fa così metafora di un quadro politico sfuggente, e le memorie del titolo stanno a indicare l'impossibilità di mettere ordine tra i frammenti di qualcosa che pare già irrimediabilmente perduto.
Uno straziante, commosso e ambiguo ritratto di madre, che riflette sui condizionamenti dovuti ai legami affettivi, ma anche sulle possibilità infinite e sui gesti impensabili che un amore spropositato come quello materno può generare. Nel film di Bong, degno di una tragedia euripidea, albergano vendetta, sangue, esplosioni di violenza, bruciature e lampi improvvisi, che vanno a contrappuntare una narrazione spesso piana e dimessa, ma anche momenti all'insegna della pura costruzione poetica, come l'inizio e la parte finale, che si rispecchiano l'uno nell'altro generando una vera e propria struttura ad anello.
1) Parasite (2019)
Parasite, che si pone decisamente in scia al coevo Noi (2019) di Jordan Peele per la costruzione generale e la potenza urlata della propria allegoria, nell’arco della sua raffinata e godibile messa in scena, si sofferma a più riprese sugli Stati Uniti come veicolo di falsificazione e menzogna. Allo stesso modo vengono citati i rapporti tragici e timorosi con la Corea del Nord, con la quale la distensione non è mai davvero andata in porto, all’interno di una panoramica profondamente politica e di stringente attualità. Non mancano nemmeno riferimenti sarcastici alla psicologia e al valore terapeutico dell’arte, in linea con la forsennata ispirazione di un prodotto che non risparmia bordate a niente e nessuno e ha il coraggio estasiante di sottoporre per primi a mitragliate proprio i suoi stessi personaggi. Il tutto tra corpo a corpo costruiti con somma e avvolgente perizia e scene di sesso al contempo inquietanti e spassosissime, tra durezza e ilarità leggiadra, tra massi e violini.