Un'epidemia mortale dilaga in poco tempo in tutto il mondo. Una squadra internazionale di medici si adopera per trovare una soluzione, mentre la paura e la preoccupazione della gente aumenta con il diffondersi del virus. È il soggetto alla base di Contagion, il film di Steven Soderbergh che nel lontano 2011 prefigurava con spaventosa preveggenza i tempi bui che stiamo vivendo, segnati dal dilagare del Covid-19. Gli elementi profetici sull’attualità contenuti al suo interno hanno portato le vendite del film a schizzare vertiginosamente, tanto da collocarlo lo scorso marzo al secondo posto nel catalogo della Warner Bros. dietro solo alla saga di Harry Potter. Come se non bastasse, lo stesso Soderbergh è stato messo a capo nelle ultime ore di una comitato speciale della DGA (la Directors Guild of America, sindacato dei registi hollywoodiani) per indagare le possibilità di ripresa delle produzioni una volta che il lockdown sarà terminato (qui i dettagli).
Contagion, rivisto oggi, appare un esempio cristallino di cinema d’autore inserito in un contesto industriale in grado di porsi in anticipo sulla realtà, tanto da arrivare a tratteggiarne in anticipo le coordinate. All’inizio del film, dopo un colpo di tosse al nero, troviamo nella prima inquadratura Beth Emhoff (Gwyneth Paltrow), donna d’affari americana che fa ritorno da Hong Kong per quella che potrebbe sembrare una banale influenza, ma muore di lì a poco in ospedale e risulta essere la prima vittima del MEV-1: un virus nuovo di zecca che si diffonde velocemente dall’Asia (per il Coronavirus il focolaio di partenza non è stato Hong Kong, ma la provincia cinese di Wuhan) a Londra passando per Minneapolis, palesando immediatamente la propria pervasività globale.
Pur non essendo un film strabiliante sul piano narrativo e aderendo in maniera tutto sommato anodina ai codici del cinema su contagi virali, pandemie e affini, Contagion ha dalla sua una componente sensoriale e tattile molto marcata, che rende la superficie delle sue immagini al contempo elettrica ed epidermica. Depongono a questo favore sia le scelte cromatiche di Soderbergh, in bilico tra il giallo e nero (quasi ad astrarre in maniera macabra e organolettica la malattia e la morte fin dal pattern dei colori), sia soprattutto le musiche di Cliff Martinez, formicolanti e sotterranee tanto quanto lo saranno in The Knick, period drama sulla chirurgia d’inizio ‘900 che Soderbergh realizzerà tre anni dopo.
Tale apparato crea una senso di precarietà che si affianca anche alla maniera fugace (e spesso caduca) con cui vengono gestite le apparizioni di un cast ricchissimo, che schiera volti come Matt Damon, Marion Cotillard, Laurence Fishburne, Kate Winslet e Jude Law. Appaiono tutti succubi di una minaccia insondabile ed estremamente temibile, il MEV-1 per l’appunto, che ha un tasso di mortalità compreso tra il 25 e il 30%, molto più alto del Coronavirus, ed esattamente come il Covid-19 è transitato dagli animali all’uomo, generando quarantene, supermercati presi d’assalto e moniti a stare in casa e a lavarsi spesso le mani, oltre a comunicati e misure speciali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In tal senso la sceneggiatura di Scott Z. Burns dimostra di aderire con fare millimetrico ai protocolli generali per fronteggiare situazioni di questo tipo, setacciando ogni ambito della trasmissione del contagio e avvalendosi della consulenza di esperti di primo piano sull’argomento.
E se la drammaturgia di Contagion può apparire poco esaltante, forse è proprio in virtù della sua componente para-documentaristica, ibridata in maniera glaciale con i codici del film all star e del thriller hollywoodiano classico. Soderbergh, dopotutto, è da tempo immemore uno sperimentatore decisamente avanzato in seno al panorama mainstream statunitense e un cineasta che si è sempre mosso in maniera metamorfica tra indipendenza e film di largo consumo, costruendo una topografia dell’oggi probabilmente più vitale e pulsante, dal suo punto di vista, di quella di tanti autori più celebrati. E Contagion, in tal senso, è un ideale punto di congiunzione tra questi due poli.
Sul fronte dei media e della gestione dell’epidemia da parte dei paesi occidentali, nella fattispecie, l quadro proposto dal film di Soderbergh è particolarmente fosco: il valore dato alla stampa è particolarmente basso, tanto che il blogger interpretato da Jude Law, coi suoi modi esaltati e poco lucidi, vede le piattaforme su cui scrive derubricati a meri “graffiti”. Come se la proliferazione di articoli online, non sempre legittimati sul piano del fact-checking, contribuisse a ricondurre la moltiplicazione delle paure non verificate delle persone a una dimensione particolarmente ancestrale e primitiva, amplificando panico e disinformazione (il social network più citato nel film è Twitter, all’epoca dell’uscita del film nato da soli cinque anni e dalle potenzialità ancora largamente inesplorate).
La cura del virus, in un modo o nell’altro, di sicuro non può insomma essere affidata a internet, veicolo di fake news e demonizzazione delle singole entità nazionali, in una rincorsa a chiedersi chi per primi scopriranno il vaccino (i francesi o gli americani?), magari tenendolo inizialmente in segreto stando al vociare degli internauti che si fa talmente martellante da venire discusso anche nelle stanze dei bottoni. Si è poi sentito dire più e più volte, nelle ultime settimane, che il Coronavirus sia la prima grande pandemia del mondo globalizzato e su questo punto Contagion propone nel finale più di una stoccata nient’affatto velata ai rischi di un modello di globalizzazione non virtuoso e nient’affatto sostenibile. Uno scenario che, a conti fatti, finisce col fare molta più paura dei gate degli aeroporti deserti, dell’immondizia cumulata fino a produrre scenari devastati da fine del mondo e delle monoporzioni razionate diffuse alla popolazione mentre ci si azzuffa selvaggiamente fuori dai negozi di alimentari.
Contagion, rivisto oggi, appare un esempio cristallino di cinema d’autore inserito in un contesto industriale in grado di porsi in anticipo sulla realtà, tanto da arrivare a tratteggiarne in anticipo le coordinate. All’inizio del film, dopo un colpo di tosse al nero, troviamo nella prima inquadratura Beth Emhoff (Gwyneth Paltrow), donna d’affari americana che fa ritorno da Hong Kong per quella che potrebbe sembrare una banale influenza, ma muore di lì a poco in ospedale e risulta essere la prima vittima del MEV-1: un virus nuovo di zecca che si diffonde velocemente dall’Asia (per il Coronavirus il focolaio di partenza non è stato Hong Kong, ma la provincia cinese di Wuhan) a Londra passando per Minneapolis, palesando immediatamente la propria pervasività globale.
Pur non essendo un film strabiliante sul piano narrativo e aderendo in maniera tutto sommato anodina ai codici del cinema su contagi virali, pandemie e affini, Contagion ha dalla sua una componente sensoriale e tattile molto marcata, che rende la superficie delle sue immagini al contempo elettrica ed epidermica. Depongono a questo favore sia le scelte cromatiche di Soderbergh, in bilico tra il giallo e nero (quasi ad astrarre in maniera macabra e organolettica la malattia e la morte fin dal pattern dei colori), sia soprattutto le musiche di Cliff Martinez, formicolanti e sotterranee tanto quanto lo saranno in The Knick, period drama sulla chirurgia d’inizio ‘900 che Soderbergh realizzerà tre anni dopo.
Tale apparato crea una senso di precarietà che si affianca anche alla maniera fugace (e spesso caduca) con cui vengono gestite le apparizioni di un cast ricchissimo, che schiera volti come Matt Damon, Marion Cotillard, Laurence Fishburne, Kate Winslet e Jude Law. Appaiono tutti succubi di una minaccia insondabile ed estremamente temibile, il MEV-1 per l’appunto, che ha un tasso di mortalità compreso tra il 25 e il 30%, molto più alto del Coronavirus, ed esattamente come il Covid-19 è transitato dagli animali all’uomo, generando quarantene, supermercati presi d’assalto e moniti a stare in casa e a lavarsi spesso le mani, oltre a comunicati e misure speciali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In tal senso la sceneggiatura di Scott Z. Burns dimostra di aderire con fare millimetrico ai protocolli generali per fronteggiare situazioni di questo tipo, setacciando ogni ambito della trasmissione del contagio e avvalendosi della consulenza di esperti di primo piano sull’argomento.
E se la drammaturgia di Contagion può apparire poco esaltante, forse è proprio in virtù della sua componente para-documentaristica, ibridata in maniera glaciale con i codici del film all star e del thriller hollywoodiano classico. Soderbergh, dopotutto, è da tempo immemore uno sperimentatore decisamente avanzato in seno al panorama mainstream statunitense e un cineasta che si è sempre mosso in maniera metamorfica tra indipendenza e film di largo consumo, costruendo una topografia dell’oggi probabilmente più vitale e pulsante, dal suo punto di vista, di quella di tanti autori più celebrati. E Contagion, in tal senso, è un ideale punto di congiunzione tra questi due poli.
Sul fronte dei media e della gestione dell’epidemia da parte dei paesi occidentali, nella fattispecie, l quadro proposto dal film di Soderbergh è particolarmente fosco: il valore dato alla stampa è particolarmente basso, tanto che il blogger interpretato da Jude Law, coi suoi modi esaltati e poco lucidi, vede le piattaforme su cui scrive derubricati a meri “graffiti”. Come se la proliferazione di articoli online, non sempre legittimati sul piano del fact-checking, contribuisse a ricondurre la moltiplicazione delle paure non verificate delle persone a una dimensione particolarmente ancestrale e primitiva, amplificando panico e disinformazione (il social network più citato nel film è Twitter, all’epoca dell’uscita del film nato da soli cinque anni e dalle potenzialità ancora largamente inesplorate).
La cura del virus, in un modo o nell’altro, di sicuro non può insomma essere affidata a internet, veicolo di fake news e demonizzazione delle singole entità nazionali, in una rincorsa a chiedersi chi per primi scopriranno il vaccino (i francesi o gli americani?), magari tenendolo inizialmente in segreto stando al vociare degli internauti che si fa talmente martellante da venire discusso anche nelle stanze dei bottoni. Si è poi sentito dire più e più volte, nelle ultime settimane, che il Coronavirus sia la prima grande pandemia del mondo globalizzato e su questo punto Contagion propone nel finale più di una stoccata nient’affatto velata ai rischi di un modello di globalizzazione non virtuoso e nient’affatto sostenibile. Uno scenario che, a conti fatti, finisce col fare molta più paura dei gate degli aeroporti deserti, dell’immondizia cumulata fino a produrre scenari devastati da fine del mondo e delle monoporzioni razionate diffuse alla popolazione mentre ci si azzuffa selvaggiamente fuori dai negozi di alimentari.
Davide Stanzione