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Darren Aronofsky: il vortice dell’ossessione

Sono ormai passati vent’anni dall’uscita di Requiem for a Dream (2000), opera seconda di Darren Aronofsky che ha contribuito a rendere celebre il nome del regista newyorkese. Con il prosieguo della sua carriera da cineasta è diventata sempre più evidente la presenza di un fil rouge che, non troppo velatamente, unisce la sua produzione: l’ossessione.

A voler essere onesti, i primi semi di questa personale poetica dell’autore erano presenti fin dalla sua pellicola d’esordio π – Il teorema del delirio (1998). Il film d’esordio di Aronofsky è un apologo underground di delirante potenza espressiva: l’utilizzo del bianco e nero, i contrasti e la grana particolarmente rimarcati, e un montaggio ipercinetico (scelta formale che riprenderà anche nel film successivo) riescono a immergere lo spettatore in questa lisergica discesa verso la follia. Il nostro protagonista si addentra in una maniacale ricerca del numero perfetto, capace di regolare l’intero universo, sfociando sempre più in un’indagine teologica. Il tentativo di comprendere qualcosa di irrazionale (non è un caso la scelta del pi greco) attraverso la ratio si basa su un paradosso e quindi non può che portare al fallimento.
L’ossessione del protagonista lo instraderà verso un processo autodistruttivo (svolta narrativa che peraltro sarà spesso ricorrente nella produzione di Aronofsky), portandolo a perforarsi il cranio con un trapano (menomazione fisica che andrà a intaccare anche alcune sue capacità mentali).

In Requiem for a Dream troviamo ancora l’utilizzo di un montaggio ipercinetico, scelta formale perfetta per trasmetterci il ritmo frenetico e ossessivo che caratterizza l’assunzione di droghe da parte di un tossico. È proprio la dipendenza il tema attorno al quale ruota questa pellicola.
Ognuno dei personaggi sprofonda in una spirale autodistruttiva dalla quale è impossibile fare ritorno, ognuno all’inseguimento della propria ossessione: droga, soldi, effimera notorietà. Nel personaggio splendidamente interpretato da Ellen Burstyn, teledipendente e, in seguito, schiava delle anfetamine, ritroviamo anche le problematiche legate a un tipo di intrattenimento tossico, in grado di tramutarsi a sua volta in una sorta di droga (tematica certamente nota ai lettori di David Foster Wallace).
Ancora una volta, trascinati sul fondale da questa spirale ossessiva, non possiamo che risvegliarci menomati, orfani di una parte del nostro vecchio Io: arti amputati, elettroshock e traumi morali.

Nel film successivo The Fountain – L’albero della vita (2006), anche se meno riuscito dei precedenti, l’ossessione gioca sempre un ruolo di primo piano. In questo caso Thomas Creo (Hugh Jackman) è talmente tormentato dall’idea di dover salvare la moglie, malata di cancro, da perdere l’occasione di trascorrere con lei i suoi ultimi momenti di vita.

Al mezzo passo falso del film precedente segue The Wrestler (2008) e il nome di Aronofsky torna in auge grazie a questo vero e proprio gioiello. Proprio come i personaggi di Requiem for a Dream si rifugiavano nelle droghe per sopperire a una disfunzione emotiva e affettiva, Randy “The Ram” Robinson (uno straordinario Mickey Rourke) fugge dalla sua incapacità di creare legami e affetti autentici nella vita reale, nascondendosi così sotto la maschera della sua ossessione: quella del ring e del wrestler.
Anche in questo caso il finale ci lascia in bocca un sapore amaro perché, proprio come il personaggio interpretato da Marisa Tomei, intuiamo che Randy ha imboccato la via dell’autodistruzione: «Senti, so quello che faccio e questo è l'unico posto dove non mi faccio del male. Al mondo non gliene frega un cazzo di me».

Con Il Cigno Nero (2008) ritroviamo tutti gli stilemi e le tematiche che hanno contraddistinto la produzione del regista newyorkese: abbiamo l’ossessione (stavolta il raggiungimento di una performance artistica), la menomazione fisica e morale del protagonista (le ferite; l’uso delle droghe; la perdita dell’innocenza) che portano alla trasformazione del personaggio (portata in scena magistralmente con il passaggio da cigno bianco a cigno nero) e, infine, l’autodistruzione.
Nina (Natalie Portman) non riesce ad arrestare in tempo la sua discesa nella follia, nonostante venga messa di fronte a ciò a cui il tormento dell’artista può condurre (il tentativo di suicidio di Beth, interpretata da Winona Ryder, è un avvertimento rimasto inascoltato). Nina riesce infine a raggiungere quell’ossessione che ha rincorso dall’inizio della pellicola, ma il prezzo di aver conseguito la fugace perfezione della sua performance è troppo alto: la morte del cigno bianco.

Madre! (2017), ultima pellicola del regista, ha polarizzato le opinioni di pubblico e critica. Al di là del mero giudizio sull’effettiva riuscita della pellicola è interessante notare come tutta la poetica di Aronofsky abbia qui trovato una chiusura del cerchio. Il film è pregno di simbolismi e rimandi religiosi, una sorta di grande metafora del rapporto fra Dio creatore e la sua creazione.
Ora più che mai, quindi, sembrano evidenti certe sfumature autobiografiche presenti nelle opere del regista: la figura divina e la sua creazione altro non sono che l’artista e la sua opera d’arte. Anche in questo caso l’ossessione, di cui si nutre l’intera pellicola, finisce con il divorare tutto ciò con cui entra in contatto, lasciando dietro di sé solo cenere.

Simone Manciulli

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