– I love you.
– No the fuck you don’t. You love being loved.
Pronunciato tra Rue e Jules in uno degli episodi più (s)travolgenti di questa seconda stagione (2x05), questo breve ma significativo scambio di confessioni potrebbe rappresentare qualsiasi personaggio di Euphoria, così come noi spettatori, portando alla luce una riflessione tanto profonda quanto capace di farci dubitare: amiamo perché il nostro istinto è quello di amare incondizionatamente o perché – più o meno consapevolmente – desideriamo, pretendiamo che quell’amore ci venga restituito, appagando per primi noi stessi?
Dopo lo straordinario successo della prima stagione e la realizzazione (in piena pandemia) di due episodi speciali connotati da una scrittura in parte psicanalitica, in parte istintivamente emotiva, Euphoria fa ritorno dopo quasi tre anni con una seconda stagione che ne conferma e rinnova l’innegabile qualità.
Quando un prodotto (televisivo o cinematografico che sia) si trasforma in un fenomeno di massa, in un vero e proprio cult ancora prima di passare effettivamente alla storia, viene spontaneo domandarsi se non si tratti forse di un entusiasmo passeggero fin troppo frenetico. Non è da escludere, eppure abbiamo la sensazione che la wave di Euphoria sia destinata a durare. Perché? Perché spingendo sull’estremizzazione e la sfacciataggine, Sam Levinson riesce a raccontare in modo del tutto incensurato le cause, le conseguenze e le emozioni scaturite da problematiche e tematiche in parte note e universali, in parte messe a tacere sotto il peso del bigottismo e dei tabù. In questo senso, la performance teatrale omoerotica sulle note di Holding out for a Hero rappresenta un vero e proprio urlo liberatorio, oltre che uno spettacolo visivo pazzesco (The Theatre and its Double, 2x07).
Ed è su un evidente – e crescente – dualismo che Levinson fonda la propria indagine e le proprie riflessioni. Contesi tra accettazione di sé e accettazione da parte degli altri, i protagonisti combattono per ritagliarsi il proprio posto nel mondo. Ma soprattutto, conducono una battaglia interiore contro il proprio peggiore nemico, ovvero se stessi.
We all thought we knew what love looked like
Ecco allora Cassie, vittima di slut-shaming, cadere in un loop soffocante all'interno del quale finirà per sessualizzare ulteriormente la propria immagine (è davvero lei padrona del proprio desiderio e del proprio corpo o, ancora una volta, è un adeguarsi al desiderio altrui?) e, allo stesso tempo, ricercare disperatamente l'amore di un partner violento e dominatore.
O invece Kat, interpretata dalla modella curvy Barbie Ferreira, diventare prigioniera di se stessa per colpa di un ruolo "iconico" che gli altri le hanno cucito addosso, incatenandola al lato oscuro della body positivity: «La gente presuppone che io ami il mio corpo, ma io non ho mai detto questo, sono stati gli altri a immaginarlo appiccicandomi addosso questa etichetta. Se non rientri nello standard di Hollywood o del mondo della moda automaticamente vieni vista come una persona coraggiosa, e per me questo è davvero offensivo. È difficile essere sempre confinata in un ruolo e avvertire la pressione di dover per forza essere felice nel tuo corpo» - Barbie Ferreira Gets Candid About the Illusion of Confidence and "Toxic" Body Positivity Culture
Oppure Maddy, che pur sapendo di valere di più di un uomo da cui ha subito violenza (fisica e psicologica) sarebbe disposta a riaccoglierlo tra le proprie braccia: è sottomissione o desiderio di rivalsa e di controllo sull'altro?
O ancora Rue, tossicodipendente consapevole di provocare dolore ai propri cari e di non essere «una bella persona»: ma quale persona sarebbe se non assumesse droghe, l'unica via di fuga da una vita che la terrorizza? Scendere a patti con la propria natura corrotta sembrerebbe rappresentare una comfort zone decisamente più rassicurante e allettante di un salto nel buio. Ma cosa succede se le parti si invertono? Se a soffocarti fino ad ucciderti sono proprio le macerie di quella casa in cui sei solito trovare rifugio? Ecco allora che l'ignoto inizia (piano piano) a fare meno paura.
E infine Lexi, probabilmente il personaggio che emerge con più forza in questa seconda stagione: «spettatrice della propria vita», è proprio grazie alla sua inclinazione all'astrazione che riesce ad assorbire e restituire il mondo che la circonda nella maniera più schietta e limpida possibile. E, a differenza degli altri, ad amare nella maniera più schietta e limpida possibile. Ingenuamente e teneramente.
– We don't really have nothing in common.
– That's not true. We both have the same sense of humor and are empathic. And curious.
– Those aren't interests. Those are real character traits. It's just the important shit people don't post online.
Scioccante, malinconica, sfacciata, provocatrice: la serie tv ideata e scritta da Levinson non rinuncia alla propria natura di fondo in questa seconda stagione, ma intraprende comunque un percorso inedito rispetto a quello precedentemente tracciato. Se la prima stagione sembrava attenersi maggiormente a un impianto narrativo “lineare”, il cui filo conduttore era rappresentato dall’evoluzione del rapporto tra Rue e Jules contornato da diverse sotto-trame più o meno intersecate, qui ci troviamo ad assistere a quelli che potrebbero essere definiti dei veri e propri quadri emotivi. Ogni episodio, così come ogni sua componente, sembra infatti rappresentare la diretta proiezione della mente del personaggio eletto a protagonista. Si impone sempre con più forza, dunque, la struttura corale della rappresentazione: Rue resta sempre un punto di riferimento irrinunciabile, ma ciascun personaggio riesce a conquistare il proprio spazio sul palcoscenico con una credibilità, una forza, talvolta un'arroganza, capaci di lasciare davvero a bocca aperta.
Il risultato è una sinfonia immersiva e travolgente. Dopo un incipit in cui risuona l'eco di Scorsese (applausi per la nonna di Fez), veniamo catapultati in un climax tensivo che, puntata dopo puntata, trauma dopo trauma, performance dopo performance, sembra volerci spingere sempre più sull'orlo del precipizio, raggiungendo l'apice negli ultimi due episodi: Our Life, lo spettacolo teatrale portato in scena da Lexi che funge da specchio delle vite dei protagonisti e con il quale cala il sipario sulla seconda stagione, rappresenta un esperimento meta-narrativo e meta-cinematografico (forse) senza precedenti sul piccolo schermo.
Non poteva esistere conclusione migliore per il secondo capitolo di un racconto che, ancora una volta, ha saputo scardinare e rivoluzionare le regole della rappresentazione. Per una terza stagione pare si debba guardare al 2024: è esagerato dire che, forse, non ci importa? Euphoria è un'opera che, per forma e contenuti, travalica qualsiasi schema della serialità a cui siamo abituati.
E se aspettare significa godersi un'esperienza come quella vissuta negli ultimi due mesi, allora ben venga aspettare.
Viola Franchini