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Le 10 migliori Coppe Volpi femminili della storia della Mostra di Venezia
Katharine Hepburn, Gong Li e Julianne Moore sono alcune delle grandi attrici che si sono aggiudicate l'ambitissima Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia. Un traguardo artistico che vale un'intera carriera.

Ecco la nostra classifica delle 10 migliori interpretazioni femminili premiate a Venezia:

1) Pascale Ogier, 1984 (Le notti della luna piena)


«Chi ha due donne perde l'anima, chi ha due case perde il senno». Il quarto capitolo della serie Commedie e proverbi, diviso in quattro parti che scandiscono cronologicamente la storia, è un delizioso studio sulla personalità femminile, la cui maturità sembra vacillare pericolosamente di fronte alle scelte obbligate della vita. Un percorso, quello della protagonista, strutturato come un gioco di sentimenti, in cui le porte aperte degli interni e i bivi delle banlieue parigine esemplificano le difficoltà della protagonista di farsi carico delle responsabilità dell'età adulta. Molto ben calibrato nella ludica alternanza di incastri e rime interne, il film diventa un compendio della poetica di Rohmer proposta nei titoli precedenti del ciclo, confermando il tocco lieve e calibratissimo di un autore capace di indagare ogni singola sfaccettatura dei rapporti uomo-donna. Meraviglia assoluta. Bellissima fotografia di Renato Berta, eccellenti scenografie e costumi, a cui ha contribuito alla realizzazione anche la straordinaria e indimenticabile Pascale Ogier (26 ottobre 1958 – 25 ottobre 1984), scomparsa a causa di un infarto alla vigilia del suo ventiseiesimo compleanno.

2) Shirley MacLaine, 1960 (L'appartamento)



Girato quasi completamente in interni (fotografia di Joseph LaShelle), in una New York grigia e avvolgente magnificamente ricostruita più vera del vero, che sta addosso ai protagonisti quasi soffocandoli, L'appartamento è il film più amaro e feroce di Billy Wilder sui rapporti umani nell'America degli anni ‘60, dove le falsità e l'individualismo del mondo del lavoro invadono, in un processo inarrestabile, anche le dinamiche affettive personali e la vita privata degli individui. Un capolavoro senza tempo, che mette in scena una giostra di ipocrisie ed egoismi attraverso il registro della commedia leggera hollywoodiana (ed è questo l'apetto clamoroso), lontana dagli intellettualismi dei nascenti autori europei. Regia sopraffina, ritmo indiavolato, scrittura finissima e due magnifici interpreti al loro meglio, i quali torneranno a collaborare con il regista nel successivo Irma la dolce del 1963. Cinque Oscar (film, regia, sceneggiatura, scenografia e montaggio), più altre cinque nomination (tra cui quelle a Lemmon e MacLaine).

3) Olivia de Havilland, 1949 (La fossa dei serpenti)



Una giovane sposina (Olivia de Havilland) perde completamente la memoria e sembra non riuscire più a recuperare il suo passato. Le cure amorevoli del marito non bastano, così l'uomo decide di portarla in un ospedale psichiatrico... Prendendo le mosse da un soggetto tanto stimolante quanto spinoso, Anatole Litvak firma uno dei suoi film più riusciti e interessanti, puntando su una storia cupa e su un'ambientazione tetra. Il regista riesce a trasmettere l'angoscia vissuta dalla protagonista e la claustrofobia dell'istituto in cui si trova, grazie anche alla notevole performance di Olivia de Havilland, impegnata in uno dei ruoli più intensi e memorabili della sua carriera. Dimostrando anche una certa dose di coraggio, il film mette abilmente in luce le cure psichiatriche adottate in quegli anni, senza aver timore di schierarsi e senza cercare di sollevare scalpore (cosa che effettivamente all'epoca si verificò). Imperdibile.

4) Julianne Moore, 2002 (Lontano dal paradiso)



Todd Haynes dirige un'opera fiammeggiante, rendendo un sentito omaggio ai melodrammi americani degli anni Cinquanta, in particolare a quelli di Douglas Sirk, di cui Lontano dal paradiso rivela evidenti influssi: il Technicolor dai colori sgargianti (fotografia di Edward Lachman), la musica avvolgente ed enfatica (colonna sonora di Elmer Bernstein) e soprattutto una serie di tematiche tipiche di quel periodo (infelicità coniugale, omosessualità, razzismo, amori impossibili). Haynes, però, rende il tutto più esplicito di quanto fosse possibile all'epoca di Sirk, per via della censura, amplificandone allusioni e sottotesti e attualizzandone lo spirito originario nel miglior modo possibile. Al di là della raffinatissima ricerca formale, che ne fa comunque un film prezioso, Lontano dal paradiso è un'accusa nei confronti dell'incapacità della società americana di affrontare la diversità sotto qualsiasi forma. Anche gli attori, nelle loro interpretazioni, si rifanno ai modelli dell'epoca, ma con meno ostentazione e più verità, procedendo a un aggiornamento anche per quel che riguarda la postura recitativa. Indimenticabile Julianne Moore, sublime nel suo ritratto di una donna sensibile e ricca di idee progressiste.

5) Gong Li, 1992 (La storia di Qiu Ju)



Ultimo capitolo di un'ipotetica tetralogia sulla condizione femminile in Cina, iniziata da Zhang Yimou con Sorgo rosso (1987) e proseguita con Ju Dou (1990) e Lanterne rosse (1991). Rispetto alle precedenti pellicole (tutte, come questa, con protagonista Gong Li), La storia di Qiu Ju è quella più realistico e di maggior impegno civile. Il regista punta qui su uno stile spontaneo, quasi documentaristico, e su un gruppo di attori non professionisti, così da rendere ancor più credibile il tormentato percorso dell'orgogliosa protagonista: si potrebbe definire il film una “commedia sociale”, in cui l'attento sguardo del suo autore si focalizza sulla burocrazia, la giustizia e le istituzioni del suo paese natale. Rigoroso e coinvolgente, è un tassello importante nella filmografia di Zhang e dell'intera cinematografica cinese di fine ventesimo secolo. Coppa Volpi alla meravigliosa Gong Li e Leone d'oro al miglior film.

6) Juliette Binoche, 1993 (Tre colori – Film blu)



Primo film della cosiddetta trilogia dei colori, dedicati ognuno a un colore della bandiera francese e a una parte del motto rivoluzionario Liberté, Égualité, Fraternité, Film blu, incentrato sulla libertà, intreccia, attraverso l'esplorazione del processo d'elaborazione del lutto, il tema principale con il suo rovescio: l'autoprigionia che la libertà ab-soluta, cioè sciolta da ogni legame, comporta. Mediante un complesso accordo formale tra immagine, colore e suono (i riflessi del blu, l'incipit del concerto per l'Europa e le dissolvenze a nero improvvise che squarciano le inquadratura), Kieślowski sottolinea, in una forma che si fa contenuto e viceversa, il percorso interiore di Julie, evidenziando ogni tappa del doloroso viaggio. La fuga dal mondo, per la protagonista, è tale fino al punto di non ritorno, e la crescita del personaggio ruota attorno al completamento dell'opera incompiuta del marito (sia essa musicale o fisica: il bambino nato dal rapporto con l'amante), e le permette di guadagnare un nuovo posto nella realtà, non più da debole, ma forte dell'esperienza luttuosa. Cinema d'autore di altissimo livello. Leone d'oro al miglior film, ex-aequo con America oggi di Robert Altman, e meritatissima Coppa Volpi alla magnifica Juliette Binoche.

7) Vivien Leigh, 1951 (Un tram che si chiama Desiderio)


Dopo una serie di film incentrati prevalentemente su temi sociali e liberal, Elia Kazan si cimenta per la prima volta con la grande letteratura e adatta il celeberrimo dramma di Tennessee Williams, uno degli autori di punta del teatro americano. Ne esce un adattamento cinematografico di innegabile potenza, grazie alla forte carica di carnalità e violenza e all'atmosfera claustrofobica accentuata dai chiaroscuri della cupa fotografia di Harry Stradling. Il carnale e animalesco Stanley Kowalski in t-shirt bianca interpretato da Marlon Brando è un'icona indimenticabile, ma Vivien Leigh, nei panni della alcolizzata ed erotomane Blanche, ha superato se stessa. Quattro Oscar: attrice protagonista (Leigh), attore non protagonista (Karl Malden), attrice non protagonista (Kim Hunter) e scenografia.

8) Tilda Swinton, 1991 (Edoardo II)


Dall'omonima tragedia di Christopher Marlowe, Derek Jarman firma uno dei suoi film più riusciti, originali e personali, manifesto della sua poetica libera e sapientemente anarchica e massimo esempio della vocazione queer del regista, da intendere quale rivendicazione di stranezza e singolarità tout-court e non solo in rapporto alle tendenze sessuali. Di Edoardo II si amplifica, com'è prevedibile, la componente passionale ed erotica, che per il regista coincide con una netta presa di posizione e con l'ammissione, sincera e inequivocabile, di una rielaborazione autonoma che non può e non vuole conoscere barriere o esigenze di verosimiglianza storica. Tale aspetto, che oltre a essere inevitabilmente eversivo rientra anche tra le scelte politiche più potenti e radicali della carriera di Jarman, si sposa a una messa in scena scarnificata e simbolica, straniata e attualizzata dal punto di vista scenografico e dell'ambientazione, che fa dialogare passato e presente. La tensione romantica tra il sovrano e il suo amato Piers Gaveston raggiunge vette di estetizzante lirismo e toccante poesia. Meraviglioso. Tilda Swinton, meritatamente premiata a Venezia, interpreta la moglie di Edoardo II, Isabella di Francia.

9) Katharine Hepburn, 1934 (Piccole donne)



Massachusetts. Durante la Guerra civile, l'intrepida “maschiaccio” Jo March (Katharine Hepburn) aspetta il ritorno del padre, cappellano nell'esercito; al suo fianco, le sue tre sorelle (Joan Bennett, Frances Dee e Jean Parker), l'amico facoltoso Laurie (Douglass Montgomery) e tanta voglia di diventare una scrittrice di successo. La vita, con lei, saprà essere amara e gratificante in egual misura. La migliore trasposizione per il grande schermo del classico Piccole donne (1868). George Cukor, con la dolce storia delle quattro sorelle March, imprime con disinvolta acutezza il suo tocco brillante e sempre coerente, riuscendo a colpire nel segno: l'opera è moderna, sceneggiata con garbo da Victor Heerman e Sarah Y. Mason e recitata divinamente da una Hepburn in stato di grazia.

10) Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire, 1995 (Il buio nella mente)



L'opera più riuscita degli anni '90 di Claaude Chabrol è una tragedia preannunciata dalla mancanza di comunicazione tra classi sociali, di cui l'analfabetismo di una delle protagonista, Sophie (Sandrine Bonnaire), si fa simbolo. Sono le parole stesse a sfuggire e a tradire. In questa spaccatura di linguaggi, la televisione si colloca come canale universale di isolamento, sia che venga trasmesso un popolare gioco a premi, sia un film d'autore, quale L'amico di famiglia (dello stesso Chabrol, che si chiama in causa come parte della cultura borghese). A differenza del romanzo di Ruth Rendell da cui è tratto (La morte non sa leggere) e del primo adattamento cinematografico di Ousama Rawi del 1986, i precedenti della protagonista vengono solo accennati: è nell'alleanza con Jeanne (Isabelle Huppert), che fa per lei da lettrice del mondo, che emerge la lotta inconscia ai “padroni”, con le contestazioni capricciose alla Chiesa e ai Lelievre. Un apologo violento e agghiacciante dal forte sottotesto politico, reso straordinario da una coppia di attrici in stato di grazia.
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