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I migliori film di Ingmar Bergman: la nostra Top 5

«Al piano del teatro, l’ampio salone per fumatori, con i suoi velluti e le sue colonne, avvolto nella penombra. Non un rumore. Qui, ogni giorno, Bergman ci aspettava quasi in agguato. Seduto, solo nella sala deserta, sembrava lasciarsi penetrare dalla pace del luogo, dal suo silenzio popolato di presenze. (…) Ai lati del salone, due balconate frontali dominano l’ingresso. Egli ce ne indica una: C’è una “presenza” in questo luogo. Se si guarda bene, in certe serata, appare il fantasma di Harriet Bosse…Un’attrice molto amata da Strindberg…È vero. Io l’ho vista».

(Olivier Assayas e Stig Björkman, Conversazione con Ingmar Bergman)


Non potrebbero esserci parole migliori di queste, contenute in uno dei libri più belli mai scritto sul maestro svedese, per condensare l’arte di Ingmar Bergman, cineasta tra i più leggendari e imprescindibili della storia del cinema.
 
Col suo rigore morale, filosofico e puntualmente psicologico e psicanalitico, il cineasta di Uppsala è riuscito come pochi altri colossi della storia del cinema a confrontarsi con temi alti come lo sbigottimento e lo sconcerto al cospetto della morte, il crollo delle certezze mistiche e spirituali del Novecento, le ferite del tempo andato e lo sfiorire degli anni migliori (“ateocristiano”, lo definì in maniera memorabile Sergio Trasatti nel Castoro dedicato al regista, immortalando con una sintesi fulminante e geniale i dissidi profondi di questo autore irripetibile).
 
Irreprensibile e granitico, titanico ma non per questo non struggente, Bergman ha condensato i pilastri costitutivi dell’essere esseri umani attraverso gli elementi fondativi del cinema e un linguaggio squisitamente immaginifico, che avvicina la sua lezione, e quella delle sue mirabili sceneggiature a orologeria, all’empireo delle arti testuali e figurative di tutti i tempi.

Millimetrico nella scrittura eppure spassionatamente aperto alle brecce che solo le immagini più memorabili possono portare con sé, Bergman non ha mai rinunciato a farsi scudo della grande tradizione teatrale scandinava, suggellando un rapporto sfaccettato e tormentato, oltre che indissolubilmente e perdutamente innamorato, con i suoi memorabili e meravigliosi interpreti, colti in un perenne stato di precarietà e fragilità che non di rado ha consegnato le loro interpretazioni ai manuali della Settima Arte.
 
In occasione della sua nascita (14 luglio 1918), vi proponiamo quella che è a giudizio della redazione di LongTake la top 5 del cinema di Ingmar Bergman.


5. Il settimo sigillo



Girato in soli trenta giorni, con un budget minimo, il film prende spunto da una pièce teatrale (Pittura su legno) che lo stesso Ingmar Bergman aveva scritto un paio d’anni prima. È in assoluto la prima pellicola dell’autore svedese totalmente incentrata sulla tematica religiosa: il regista, influenzato dalle teorie esistenzialiste, firma uno script in cui il “silenzio di Dio” è la paura più grande che l’essere umano deve affrontare. Attraverso un percorso di enorme spessore allegorico, Antonius Block si trova di fronte a diversi tipi di tragedie umane: la guerra, la peste, l’adulterio e il fanatismo. Il cavaliere torna a casa sfiduciato, deluso dalla Crociata a cui ha preso parte, assalito dai dubbi sull’effettiva esistenza di Dio; a lui si oppone il suo scudiero (Gunnar Björnstrand), materialista e disinteressato a farsi troppe domande. In mezzo a una pellicola dominata dal pessimismo (vicino, in questo senso, al pensiero di Jean-Paul Sartre) c’è spazio anche per una buona azione: Block distrae la Morte e riesce a salvare una famiglia di saltimbanchi. Straordinariamente suggestivo dal punto di vista visivo, il film colpisce per il bianco e nero di Gunnar Fischer, e per una serie d’immagini che paiono ispirarsi alle sacre rappresentazioni medievali. Memorabili i dialoghi tra i due sfidanti («Ti tocca il nero. Si addice alla Morte, non credi?») e la sequenza finale in cui la Morte accompagna le sue vittime, che si tengono per mano: una danza macabra, ispirata all’iconografia del Tardo Medioevo, che Bergman girò al crepuscolo in pochi minuti, in un momento in cui la luce gli apparve perfetta e senza la possibilità di battere un secondo ciak.


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4. Sussurri e grida



Una delle opere più dolorose del grande regista svedese. Tra sussurri e grida, tra silenzio e parola, non c’è più alcuna differenza: il tempo ha perso di senso, gli istanti si succedono nel ricettacolo di un mondo ormai privo d’anima. La superba fotografia di Sven Nykvist immerge il quartetto di donne all’interno di un rosso che si fa via via sempre più soffocante, alla ricerca di un’asfissia cromatico-emotiva con pochi precedenti. Ingmar Bergman non racconta semplicemente queste donne, ma scava, scandaglia, perlustra anima e psiche, alla ricerca disperata del sentimento più puro.


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3. Fanny e Alexander



«Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni». Uno dei più grandi ritratti familiari mai apparsi sul grande schermo, concepito da Ingmar Bergman come un compendio definitivo del proprio cinema, intriso di paura, angoscia ma anche di energia vitale. Con straordinaria maestria, l’autore svedese riesce a restituire una narrazione solenne, maestosa e magniloquente, permeata di rigore nordico, che passa dal dramma alla riflessione esistenziale, incrociando vita, cinema, teatro, arte e letteratura (Hoffmann, Ibsen, Strindberg, Shakespeare). Sotto il segno di un alto magistero stilistico, ricopre un ruolo centrale il sottotesto religioso (colpa, espiazione, perdono), che esplode nell’opprimente ostilità incarnata dalla guida spirituale del vescovo Vergérus, uomo di fede votato ad austerità e vetusta purezza. Complementi d’arredo, orpelli, drappi, sculture e mobili antichi della sontuosa dimora degli Ekdhal avvolgono un microcosmo trasversale che vive in una dimensione ovattata al di là di qualsiasi coordinata spazio-temporale. Ricchissimo e complesso, Fanny & Alexander scorre potente annientando ogni confine dettato da una convenzionale suddivisione di genere. Calata in un’atmosfera onirica, la pellicola vanta una marcata componente magica (statue che prendono vita, visioni soprannaturali, spiriti) che diventa elogio della fantasia più libera e inviolabile, in grado di confondere verità e menzogna, maschere e fantasmi, realtà e immaginazione. La violenza della parola («Se esiste un Dio, è un Dio di cacca e di piscio che vorrei prendere a calci in culo») o delle immagini (la morte di Oscar, le laceranti urla di Helena) racchiudono il doloroso carico di sofferenze con cui l’uomo è costretto a confrontarsi. Cruciale per esprimere l’imperscrutabilità del disegno di Dio è il confronto tra Alexander, sempre più consapevole della propria condizione, e il tirannico Vergérus, mostruosamente barricato dietro a Verità e Giustizia divine.


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2. Il posto delle fragole



Ingmar Bergman realizza precocemente il suo capolavoro sul tempo, perché Il posto delle fragole è un film intriso, caratterizzato, deformato dalla sua temporalità. Ma non è un tempo cronologico, poiché perfino il flashback non si codifica come tale. È come se l'anziano protagonista, nel suo errare lungo i sentieri del ricordo, evocasse un mondo passato e, in qualche modo, lo presenziasse. In questo modo, l'opera si configura come un road-movie ambientato nella mente del professore che, travolto da incubi e strane visioni, è portato a fare un bilancio personale della propria vita e a fare i conti con le conseguenze di un'esistenza socialmente misera e anaffettiva. Struggente e indimenticabile l'interpretazione del grande regista svedese Victor Sjöström. La pellicola, una delle vette degli anni '50, è stato il maggior successo commerciale di Bergman e uno dei suoi lavori più premiati, conquistando l'Orso d'oro e il Premio FIPRESCI al Festival di Berlino, un Golden Globe per il miglior film straniero nel 1959 e una nomination all'Oscar per la miglior sceneggiatura.


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1. Persona



 Una pellicola scorre in un piccolo proiettore: in rapida successione si sovrappongono un pene e dei disegni animati; un ragno e un agnello sacrificale; immagini slapstick e chiodi che si piantano sul palmo di una mano (di Cristo?). In seguito, un bambino si alza dal letto e accarezza un enorme schermo su cui è proiettato il volto di una donna: il volto inizia a diventare sfocato, ne compare un altro (di un’altra donna) e lui continua ad accarezzarlo. È uno degli incipit più suggestivi, affascinanti e ambigui dell’intera storia del cinema. I brevi frammenti potrebbero rappresentare quei temi che Ingmar Bergman aveva affrontato nella sua filmografia precedente (il sesso; la religione; il sacrificio; la passione per gli albori della storia del cinema) e Persona potrebbe così porsi immediatamente come un film-summa della poetica del maestro svedese. La narrazione intanto procede: Alma ed Elisabeth vanno a passare del tempo su un’isola (a Fårö, dove Bergman passerà gli ultimi anni della sua vita), nella speranza che questo porti giovamento all’attrice, e iniziano a confidarsi. Il silenzio della donna è un modo per evitare di mentire e perdere quelle maschere che l’hanno accompagnata per tutta la vita: Elisabeth vuole smettere di sembrare e iniziare a essere. Il sottile confine tra realtà (essere) e finzione (sembrare) viene esplicitato da Bergman attraverso la natura metacinematografica del film stesso: Elisabeth, in un momento memorabile, fotografa il pubblico e, circa a metà della visione, la pellicola brucia e l’immagine rimane sfocata per alcuni minuti. Il film riprende ma tutto sembra essere cambiato: le donne sembrano una il doppio dell’altro, e il marito di Elisabeth riconosce in Alma sua moglie. Questo straordinario viaggio nella psiche femminile, angoscioso e palpitante, raggiunge il suo apice con un fitto dialogo (in realtà, un monologo) tra le due e con la conseguente fusione tra i due volti (curiose le parole di Bergman in questo senso: «Quando ricevetti la copia del filmato dal laboratorio, chiesi a Liv e a Bibi di venire nella stanza del montaggio. Bibi esclamò, sorpresa: “Ma Liv, sembri così strana!”. E Liv disse: “No, sei tu, Bibi, sembri davvero strana!”. Spontaneamente negarono la loro metà di quel viso»).

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