La belle époque che da ormai qualche decennio sta attraversando il cinema sudcoreano ha finalmente ricevuto anche il giusto riconoscimento degli spettatori. Parasite, recente trionfatore agli Oscar, ha infatti portato all’attenzione del grande pubblico il lavoro di Bong Joon-ho, considerato uno degli autori contemporanei più interessanti.
Il regista di Taegu ci propone un tipo di cinema che coniuga alla perfezione uno stile elegante e ricercato a tematiche e riflessioni di grande attualità. I lavori di Bong risultano sempre molto accattivanti anche per un tipo di pubblico non avvezzo a un cinema prettamente autoriale: è egregio il modo in cui il regista riesce a portare sullo schermo un intrattenimento di grande qualità. Cerchiamo quindi di far emergere alcuni elementi che possono dare un’idea di quanto sia complessa e studiata la messa in scena nel cinema di Bong Joon-ho.
In Memories of Murder (2003) si predilige uno stile di recitazione corale a discapito del più inflazionato campo/controcampo: questo sistema di composizione permette di generare enfasi attraverso la naturale interazione degli attori. La messa in scena sfrutta alcune dinamiche dell’occhio umano per catalizzare l’attenzione su ciò che ci vuol essere mostrato: lo sguardo tende a posarsi sui personaggi che conducono la conversazione. Aggiungiamo anche che, posizionando gli attori più vicini a una fonte di luce o all’obiettivo della telecamera, stiamo suggerendo un grado di importanza maggiore di questi rispetto a chi resta sullo sfondo (magari anche fuori fuoco): Bong Joon-ho utilizza questi espedienti per caratterizzare il personaggio del detective Seo che, per tutta la prima parte del film, sembra un corpo estraneo all’interno del gruppo investigativo. Interessante anche notare come la messa in scena corale consenta di raccontare più linee narrative allo stesso tempo, posizionandole intelligentemente su diversi piani di profondità: nella scena del bar, ad esempio, ci vengono raccontate tre dinamiche che si intersecano in maniera fluida e naturale (il litigio fra il detective Park e il detective Seo in primo piano; la pomiciata del detective Cho con la hostess sullo sfondo; e, infine, il capo del gruppo che si desta dal suo stato di ebbrezza, catalizzando l’attenzione su di sé, per riportare all’ordine morale e al dovere i colleghi).
In Mother (2009) la scelta formale a cui ricorre Bong è quella di insistere su dei volti visti di profilo, utilizzando un teleobiettivo: combinando questo tipo di ottica, che schiaccia lo sfondo facendo perdere la percezione delle distanze, a un volto visibile solo per metà, si giunge a un effetto straniante in cui si ha la percezione di essere tenuti all’oscuro di qualcosa. Essendo a conoscenza degli sviluppi narrativi, comprendiamo facilmente quanto questa soluzione estetica ne esalti l’impatto: ci viene costantemente ricordato che i personaggi del film sono per noi degli estrani, molte cose di loro ci sfuggono e, come voyeur, possiamo soltanto limitarci a spiarli nella speranza di poter capire ciò che muove le loro azioni.
Altro elemento che ritorna nel cinema di Bong è il suggestivo simbolismo legato alla “grotta”. Sia in Memories of Murder (la galleria) sia in Parasite (l’ingresso della cantina) la messa in scena di questi due luoghi di passaggio suggerisce allo spettatore una paura ancestrale insita nell’animo umano. Per i personaggi è un punto di svolta, è un lento e timoroso addentrarsi negli oscuri meandri della psiche. Questi squarci neri riecheggiano come un monito: state attenti a non perdere voi stessi.
Simone Manciulli