La quinta edizione del longtake Film Festival si è conclusa con la cerimonia di chiusura, in cui sono stati annunciati tutti i vincitori della manifestazione. Sono stati tre giorni meravigliosi, con le proiezioni praticamente sempre piene e con un flusso di oltre 500 presenze, che ci hanno fatto compagnia nei bellissimi spazi de Il Cinemino, che ha ospitato il nostro festival. Approfittiamo di questo spazio per ringraziare tutti coloro che sono venuti a trovarci e tutti i nostri partner, in ordine sparso: Roger, SourceMate, Filmeeting, Giffoni Innovation Hub, Circonvalla Film e AIR3, oltre al nostro mediapartner Cinelapus. Un ringraziamento speciale va al Comune di Milano che ha patrocinato e supportato l'iniziativa.
Il pubblico ha decretato il film vincitore: Beautiful Beings che ha ricevuto un apprezzamento davvero straordinario. Gli altri quattro titoli in concorso erano, in ordine di presentazione, Showing Up, 1976, Shayda e Songs of Earth. La pellicola islandese entra così nella storia del palmarès del festival, dopo i successi di Wiener-Dog di Todd Solondz, American Honey di Andrea Arnold, Last Flag Flying di Richard Linklater e Les intranquilles di Joachim Lafosse.
Il concorso per giovani critici, intitolato a Marco Valerio, ha visto trionfare nella sezione under 30 Marika Iannetta, a cui facciamo ancora i nostri complimenti e di cui pubblichiamo con piacere la sua recensione sul film Patagonia.
Patagonia, l’illusione bruciante della libertà
di Marika Iannetta
"Le opere prime hanno un cuore che pulsa all’impazzata. Sprigionano un’energia narrativa e visiva in grado di risvegliare coscienze, scuotere i sensi e regalare la bellezza naturale del primo amore. Infrangono schemi precostituiti per destabilizzare, indurre alla riflessione, suscitare un’emozione radicale. Patagonia di Simone Bozzelli racchiude tutti questi elementi: è un film che tocca corde segrete dell’emotività, sgretola i canoni estetici del «bello stilo» e affonda lo sguardo nell’ esasperata ricerca della libertà.
A volerla è un timido ventenne, Yuri, chiuso in una castrante bolla familiare. È un ragazzo simbolo della categoria degli outsiders. Un giovane che, dietro un’attitudine goffa mista al fragile disagio dello stare al mondo, nasconde un’anima desiderosa di essere scoperta e amata. L’occasione di una rinascita personale gli si presenta quando conosce Agostino, uno scapestrato animatore di feste che si guadagna da vivere alla giornata, girovagando su un camper sgangherato.
Agostino e Yuri vivono agli antipodi. Uno morde la vita, l’altro la schiva. Viaggiano su binari caratteriali differenti. Eppure, si sa, gli opposti si attraggono. E, non a caso, si fa subito palpabile l’intesa alchemica che scorre tra i due, a partire dalla natura del loro primo incontro. Sotto la superfice del gioco e dell’accomodante rimprovero, si innesca una silenziosa scossa elettrica che vibra sotto pelle per poi esplodere nell’incrocio di sguardi seducenti e parole accattivanti, che sollecitano (e alimentano) il dolceamaro sapore dell’evasione.
Dunque, non resta che partire, insieme, sognando di raggiungere la calda Patagonia, una sorta di mistica “terra promessa” che, agli occhi di Yuri, risuona come l’opportunità di scrostarsi da gabbie convenzionali per forgiare la propria autonomia identitaria. Per Yuri Agostino è la materializzazione di un desiderio proibito: la peccaminosa iniziazione alla vita adulta. Ben presto, però, il viaggio prospettato si rivela un’illusione. Come illusoria è la chiarezza genuina del rapporto dei due giovani. Il loro è un legame che si colora di ambiguità, in cui il confine tra seduzione e manipolazione piscologica si fa, sequenza dopo sequenza, sempre più labile.
Così, Agostino svela il suo lato oscuro. L’intrigante fascino iniziale lascia spazio al predominio di logiche di possesso. La passione carnale si traduce nella messa in atto di subdoli giochi di controllo e sottomissione che, piano piano, snaturano la purezza del sentimento nascente. Lo spettatore, proiettato nel desolato entroterra abruzzese, specchio della fragilità inquieta dei protagonisti, si imbatte nella rappresentazione di un amore tossico, nei cui meccanismi d’innesco è semplice immedesimarsi.
Simone Bozzelli – con una regia che privilegia i dettagli e la travolgente loquacità dei corpi, strizzando l’occhio al miglior cinema di Dolan – realizza un audace coming of age che fa luce sulla brama d’indipendenza e autodeterminazione, dietro cui si cela un solo bisogno impellente: quello di non averne nessuno. Perché avere un bisogno significa dipendere sempre da qualcuno o da qualcosa. Vuol dire essere, sempre, in una condizione di prigionia. Essere irrimediabili vittime di sé stessi. Di tutto ciò a cui si è legati. Ma è complicato slegarsi. Disunirsi. Lasciar andare e lasciarsi andare, nonostante le storture che fanno male. E allora ci si chiede: esiste davvero la libertà? Esiste davvero la Patagonia?"
Come da tradizione, il concorso (che ha avuto una gigantesca partecipazione, con circa 200 contributi che ci sono arrivati) aveva anche una sezione over 30, dove i vincitori ex aequo sono stati Alessandro Bombi e Giulia Pugliese.
Ecco qui di seguito le loro recensioni:
Decision to Leave: un noir classico proiettato nel futuro
di Alessandro Bombi
"Il detective Jang indaga sulla morte di un uomo, precipitato da una roccia durante un’escursione in montagna: incidente, omicidio o suicidio? La principale sospettata è la giovane vedova, una donna misteriosa di origine cinese dalla quale il poliziotto sarà inesorabilmente attratto in un ambiguo gioco di seduzione che lo porterà in una ossessionante spirale di passione travolgente e distruttiva, sospesa tra realtà e immaginazione.
Park Chan-wook è stato a lungo un critico e un cinephile, prima ancora che un regista, e ha assimilato le lezioni del cinema classico – soprattutto del grande melò americano – che ha poi rielaborato con grande duttilità e sensibilità nel corso di tutta la sua carriera attraversando generi diversi: il film politico-militare in JSA, la trilogia della vendetta, l’horror metafisico (Thirst), il film storico (The Handmaiden). Grande anche il debito nei confronti di Alfred Hitchcock, riscontrabile sia nelle atmosfere generali di alcuni suoi film, sia in tanti piccoli dettagli come le riprese maniacali delle mani degli attori: in questa sua ultima opera vincitrice del Prix de la mise en scène al Festival di Cannes 2022 sono evidenti i riferimenti a La donna che visse due volte, con le altezze, le vertigini, la donna spiata, la separazione in due parti con un netto cambio di registro ma soprattutto con la femme fatale che smonta tassello dopo tassello la vita anonima ed ordinaria dell’investigatore, annientandolo e riducendolo a pedina inerte depressa ed insonne, disposto a perdere tutto per lei anche dopo averne compreso il piano cinico e spietato.
Rispetto alle opere precedenti manca una rappresentazione esplicita di sessualità e violenza, lasciando spazio alla forza dei dialoghi, intensi e poetici e ad un erotismo del desiderio appena accennato; un poliziesco la cui vera indagine non è sulla scena del delitto, ma su un piano psicologico ed esistenziale che si concentra sulle persone, le loro emozioni e sentimenti; una solida sceneggiatura alterna momenti di suspense, azione, veloci flashback a brevi istanti di pausa, dedicati soprattutto all’impacciato corteggiamento e ad effimere situazioni di tenerezza, solo durante le quali riusciamo a soffermarci sull'intimità dei protagonisti. Un film che può sembrare d'altri tempi ma che invece è pienamente contemporaneo, con i riferimenti geopolitici e culturali al rapporto tra Cina e Corea e con l’uso della tecnologia, in particolare degli smartphone, veri protagonisti del noir di questo nuovo millennio, che consentono di mantenere vivo il ricordo attraverso messaggi, foto e registrazioni.
Lo spettatore-voyeur è immerso per oltre due ore in spazi limitati, un universo a sé stante con pochi personaggi, ed assiste ad un’impossibile storia d’amore vissuta in due dimensioni parallele, destinate a non incontrarsi mai: "e nel momento in cui il tuo amore ha avuto fine, il mio ha avuto inizio" dice lei nel prefinale, in un enigmatico equilibrio tra verità e menzogna. Le geometrie, le architetture e l’eleganza stilistica sembrano frenare la passione come nel miglior cinema di Wong Kar-wai e ci conducono verso un epilogo che può apparire troppo manieristico ma sicuramente struggente e difficile da dimenticare, dove la dark lady, dopo avere completato il suo disegno, compie un atto estremo, la decision to leave, la scelta di abbandonare tutto e rinunciare a vivere."
Saint Omer (2022): La Medea naufragata
di Giulia Pugliese
"Io e mia madre abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale, non ci siamo mai capite, la vita adulta ci ha allontanate e il contrasto è diminuito.
Saint Omer è un film che parla di un tabù, l’infanticidio e che cosa significa essere una madre tra due culture, quella africana che vede il ruolo della donna solo come madre e quella occidentale, basata sulla realizzazione lavorativa dell’individuo. È un film su un doppio: la protagonista Rama, una francese di seconda generazione, scrittrice, per il suo libro segue il processo di Laurence Coly, una donna senegalese immigrata in Francia che ha ucciso la figlia di 15 mesi. La donna, per diverse motivazioni si riconosce nell’indiziata. Laurence è pazza, è cattiva, è posseduta?
Alice Diop riprende i temi a lei cari come documentarista, il multiculturalismo e i legami familiari, anche lei afro-francese come le due donne, con la sua presenza fa riecheggiare questo “triplo”. Diop decide di non perdere il suo stile realistico, usando il legal drama, tuttavia la regista si lascia andare a momenti più aulici e sperimentali. Il film abbraccia diverse tematiche con una forza intellettuale e colta, ma regala momenti di introspezione personale e un’analisi tenera delle relazioni familiari.
Il film riprende un capolavoro della letteratura francese Hiroshima mon amour di Marguerite Duras, per parlare di una tematica importante del film: come la società colpevolizza le donne per i loro desideri, usando il senso di vergogna. Rasare le donne per punirle, marchiandole, non è solo un gesto di prevaricazione, ma anche d’umiliazione. Il film mette in scena una certa “disgregazione” che deriva dalla
colpa congenita di appartenere a una cultura non dominante, il tentativo di Laurence di essere una perfetta parisienne, con un francese impeccabile e una carriera accademica, non è altro che una forma di colonialismo inflitta. Laurence non è Medea come l’aveva concepita Euripide, un personaggio che mantiene il suo lato selvaggio, è invece più simile alla Medea di Pasolini, citata nel film: una straniera, maga e barbara. Giasone portandola in Grecia la vuole elevare, Medea in questo film è già una donna che non è più amata, di una freddezza glaciale e non uccide i suoi figli per rabbia, come la protagonista.
La pellicola si concentra sull’uso del multiculturalismo come specchietto per le allodole: dopo esserci stupiti del suo perfetto francese, di aver scelto Wittgeinstein (filosofo tedesco dell’800) per la sua tesi, usando i nostri riferimenti culturali giudichiamo la ragazza, salvo poi stare bene con la nostra coscienza e accettare la spiegazione etno-culturale, perché quella razionale è troppo difficile. Alla fine del film l’avvocato difensore parla (a noi) della Chimera che è un’ibridazione come le due protagoniste. Nella mitologia greca la chimera è un mostro composto da più animali, ma nella comune terminologia è un’utopia, impossibile da raggiungere, forse nella concezione comune qualcosa che appartiene a più mondi non può esistere. Alla fine del processo cosa provano le spettatrici, empatia o paura? Saint Omer è un film sulla paura atavica di quel che non capiamo e se quello che non capiamo fosse dentro di noi?
Con l’età adulta i nostri genitori smettono di essere degli antagonisti, perdoniamo i loro difetti e facciamo le nostre vite. Ma la ruga d’espressione che mi viene quando sono crucciata è la stessa che ha mia madre."
Il pubblico ha decretato il film vincitore: Beautiful Beings che ha ricevuto un apprezzamento davvero straordinario. Gli altri quattro titoli in concorso erano, in ordine di presentazione, Showing Up, 1976, Shayda e Songs of Earth. La pellicola islandese entra così nella storia del palmarès del festival, dopo i successi di Wiener-Dog di Todd Solondz, American Honey di Andrea Arnold, Last Flag Flying di Richard Linklater e Les intranquilles di Joachim Lafosse.
Il concorso per giovani critici, intitolato a Marco Valerio, ha visto trionfare nella sezione under 30 Marika Iannetta, a cui facciamo ancora i nostri complimenti e di cui pubblichiamo con piacere la sua recensione sul film Patagonia.
Patagonia, l’illusione bruciante della libertà
di Marika Iannetta
"Le opere prime hanno un cuore che pulsa all’impazzata. Sprigionano un’energia narrativa e visiva in grado di risvegliare coscienze, scuotere i sensi e regalare la bellezza naturale del primo amore. Infrangono schemi precostituiti per destabilizzare, indurre alla riflessione, suscitare un’emozione radicale. Patagonia di Simone Bozzelli racchiude tutti questi elementi: è un film che tocca corde segrete dell’emotività, sgretola i canoni estetici del «bello stilo» e affonda lo sguardo nell’ esasperata ricerca della libertà.
A volerla è un timido ventenne, Yuri, chiuso in una castrante bolla familiare. È un ragazzo simbolo della categoria degli outsiders. Un giovane che, dietro un’attitudine goffa mista al fragile disagio dello stare al mondo, nasconde un’anima desiderosa di essere scoperta e amata. L’occasione di una rinascita personale gli si presenta quando conosce Agostino, uno scapestrato animatore di feste che si guadagna da vivere alla giornata, girovagando su un camper sgangherato.
Agostino e Yuri vivono agli antipodi. Uno morde la vita, l’altro la schiva. Viaggiano su binari caratteriali differenti. Eppure, si sa, gli opposti si attraggono. E, non a caso, si fa subito palpabile l’intesa alchemica che scorre tra i due, a partire dalla natura del loro primo incontro. Sotto la superfice del gioco e dell’accomodante rimprovero, si innesca una silenziosa scossa elettrica che vibra sotto pelle per poi esplodere nell’incrocio di sguardi seducenti e parole accattivanti, che sollecitano (e alimentano) il dolceamaro sapore dell’evasione.
Dunque, non resta che partire, insieme, sognando di raggiungere la calda Patagonia, una sorta di mistica “terra promessa” che, agli occhi di Yuri, risuona come l’opportunità di scrostarsi da gabbie convenzionali per forgiare la propria autonomia identitaria. Per Yuri Agostino è la materializzazione di un desiderio proibito: la peccaminosa iniziazione alla vita adulta. Ben presto, però, il viaggio prospettato si rivela un’illusione. Come illusoria è la chiarezza genuina del rapporto dei due giovani. Il loro è un legame che si colora di ambiguità, in cui il confine tra seduzione e manipolazione piscologica si fa, sequenza dopo sequenza, sempre più labile.
Così, Agostino svela il suo lato oscuro. L’intrigante fascino iniziale lascia spazio al predominio di logiche di possesso. La passione carnale si traduce nella messa in atto di subdoli giochi di controllo e sottomissione che, piano piano, snaturano la purezza del sentimento nascente. Lo spettatore, proiettato nel desolato entroterra abruzzese, specchio della fragilità inquieta dei protagonisti, si imbatte nella rappresentazione di un amore tossico, nei cui meccanismi d’innesco è semplice immedesimarsi.
Simone Bozzelli – con una regia che privilegia i dettagli e la travolgente loquacità dei corpi, strizzando l’occhio al miglior cinema di Dolan – realizza un audace coming of age che fa luce sulla brama d’indipendenza e autodeterminazione, dietro cui si cela un solo bisogno impellente: quello di non averne nessuno. Perché avere un bisogno significa dipendere sempre da qualcuno o da qualcosa. Vuol dire essere, sempre, in una condizione di prigionia. Essere irrimediabili vittime di sé stessi. Di tutto ciò a cui si è legati. Ma è complicato slegarsi. Disunirsi. Lasciar andare e lasciarsi andare, nonostante le storture che fanno male. E allora ci si chiede: esiste davvero la libertà? Esiste davvero la Patagonia?"
Come da tradizione, il concorso (che ha avuto una gigantesca partecipazione, con circa 200 contributi che ci sono arrivati) aveva anche una sezione over 30, dove i vincitori ex aequo sono stati Alessandro Bombi e Giulia Pugliese.
Ecco qui di seguito le loro recensioni:
Decision to Leave: un noir classico proiettato nel futuro
di Alessandro Bombi
"Il detective Jang indaga sulla morte di un uomo, precipitato da una roccia durante un’escursione in montagna: incidente, omicidio o suicidio? La principale sospettata è la giovane vedova, una donna misteriosa di origine cinese dalla quale il poliziotto sarà inesorabilmente attratto in un ambiguo gioco di seduzione che lo porterà in una ossessionante spirale di passione travolgente e distruttiva, sospesa tra realtà e immaginazione.
Park Chan-wook è stato a lungo un critico e un cinephile, prima ancora che un regista, e ha assimilato le lezioni del cinema classico – soprattutto del grande melò americano – che ha poi rielaborato con grande duttilità e sensibilità nel corso di tutta la sua carriera attraversando generi diversi: il film politico-militare in JSA, la trilogia della vendetta, l’horror metafisico (Thirst), il film storico (The Handmaiden). Grande anche il debito nei confronti di Alfred Hitchcock, riscontrabile sia nelle atmosfere generali di alcuni suoi film, sia in tanti piccoli dettagli come le riprese maniacali delle mani degli attori: in questa sua ultima opera vincitrice del Prix de la mise en scène al Festival di Cannes 2022 sono evidenti i riferimenti a La donna che visse due volte, con le altezze, le vertigini, la donna spiata, la separazione in due parti con un netto cambio di registro ma soprattutto con la femme fatale che smonta tassello dopo tassello la vita anonima ed ordinaria dell’investigatore, annientandolo e riducendolo a pedina inerte depressa ed insonne, disposto a perdere tutto per lei anche dopo averne compreso il piano cinico e spietato.
Rispetto alle opere precedenti manca una rappresentazione esplicita di sessualità e violenza, lasciando spazio alla forza dei dialoghi, intensi e poetici e ad un erotismo del desiderio appena accennato; un poliziesco la cui vera indagine non è sulla scena del delitto, ma su un piano psicologico ed esistenziale che si concentra sulle persone, le loro emozioni e sentimenti; una solida sceneggiatura alterna momenti di suspense, azione, veloci flashback a brevi istanti di pausa, dedicati soprattutto all’impacciato corteggiamento e ad effimere situazioni di tenerezza, solo durante le quali riusciamo a soffermarci sull'intimità dei protagonisti. Un film che può sembrare d'altri tempi ma che invece è pienamente contemporaneo, con i riferimenti geopolitici e culturali al rapporto tra Cina e Corea e con l’uso della tecnologia, in particolare degli smartphone, veri protagonisti del noir di questo nuovo millennio, che consentono di mantenere vivo il ricordo attraverso messaggi, foto e registrazioni.
Lo spettatore-voyeur è immerso per oltre due ore in spazi limitati, un universo a sé stante con pochi personaggi, ed assiste ad un’impossibile storia d’amore vissuta in due dimensioni parallele, destinate a non incontrarsi mai: "e nel momento in cui il tuo amore ha avuto fine, il mio ha avuto inizio" dice lei nel prefinale, in un enigmatico equilibrio tra verità e menzogna. Le geometrie, le architetture e l’eleganza stilistica sembrano frenare la passione come nel miglior cinema di Wong Kar-wai e ci conducono verso un epilogo che può apparire troppo manieristico ma sicuramente struggente e difficile da dimenticare, dove la dark lady, dopo avere completato il suo disegno, compie un atto estremo, la decision to leave, la scelta di abbandonare tutto e rinunciare a vivere."
Saint Omer (2022): La Medea naufragata
di Giulia Pugliese
"Io e mia madre abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale, non ci siamo mai capite, la vita adulta ci ha allontanate e il contrasto è diminuito.
Saint Omer è un film che parla di un tabù, l’infanticidio e che cosa significa essere una madre tra due culture, quella africana che vede il ruolo della donna solo come madre e quella occidentale, basata sulla realizzazione lavorativa dell’individuo. È un film su un doppio: la protagonista Rama, una francese di seconda generazione, scrittrice, per il suo libro segue il processo di Laurence Coly, una donna senegalese immigrata in Francia che ha ucciso la figlia di 15 mesi. La donna, per diverse motivazioni si riconosce nell’indiziata. Laurence è pazza, è cattiva, è posseduta?
Alice Diop riprende i temi a lei cari come documentarista, il multiculturalismo e i legami familiari, anche lei afro-francese come le due donne, con la sua presenza fa riecheggiare questo “triplo”. Diop decide di non perdere il suo stile realistico, usando il legal drama, tuttavia la regista si lascia andare a momenti più aulici e sperimentali. Il film abbraccia diverse tematiche con una forza intellettuale e colta, ma regala momenti di introspezione personale e un’analisi tenera delle relazioni familiari.
Il film riprende un capolavoro della letteratura francese Hiroshima mon amour di Marguerite Duras, per parlare di una tematica importante del film: come la società colpevolizza le donne per i loro desideri, usando il senso di vergogna. Rasare le donne per punirle, marchiandole, non è solo un gesto di prevaricazione, ma anche d’umiliazione. Il film mette in scena una certa “disgregazione” che deriva dalla
colpa congenita di appartenere a una cultura non dominante, il tentativo di Laurence di essere una perfetta parisienne, con un francese impeccabile e una carriera accademica, non è altro che una forma di colonialismo inflitta. Laurence non è Medea come l’aveva concepita Euripide, un personaggio che mantiene il suo lato selvaggio, è invece più simile alla Medea di Pasolini, citata nel film: una straniera, maga e barbara. Giasone portandola in Grecia la vuole elevare, Medea in questo film è già una donna che non è più amata, di una freddezza glaciale e non uccide i suoi figli per rabbia, come la protagonista.
La pellicola si concentra sull’uso del multiculturalismo come specchietto per le allodole: dopo esserci stupiti del suo perfetto francese, di aver scelto Wittgeinstein (filosofo tedesco dell’800) per la sua tesi, usando i nostri riferimenti culturali giudichiamo la ragazza, salvo poi stare bene con la nostra coscienza e accettare la spiegazione etno-culturale, perché quella razionale è troppo difficile. Alla fine del film l’avvocato difensore parla (a noi) della Chimera che è un’ibridazione come le due protagoniste. Nella mitologia greca la chimera è un mostro composto da più animali, ma nella comune terminologia è un’utopia, impossibile da raggiungere, forse nella concezione comune qualcosa che appartiene a più mondi non può esistere. Alla fine del processo cosa provano le spettatrici, empatia o paura? Saint Omer è un film sulla paura atavica di quel che non capiamo e se quello che non capiamo fosse dentro di noi?
Con l’età adulta i nostri genitori smettono di essere degli antagonisti, perdoniamo i loro difetti e facciamo le nostre vite. Ma la ruga d’espressione che mi viene quando sono crucciata è la stessa che ha mia madre."