Una gaffe così clamorosa da mandare parzialmente nel dimenticatoio il resto della notte degli Oscar, quella consumata quando in Italia erano ormai passate da pochi minuti le sei del mattino: Warren Beatty e Faye Dunaway, la coppia di attori del leggendario Gangster Story di Arthur Penn, assestano un colpo di scena sconcertante e sensazionale proprio in coda a una delle edizioni degli Academy Awards tutto sommato più prevedibili degli ultimi anni, annunciando il premio come miglior film allo strafavorito La La Land di Damien Chazelle quando in realtà, a trionfare come best picture, sarebbe Moonlinght di Barry Jenkins, di fatto l’unico runner-up possibile degli Oscar 2017. Uno scambio di buste, con annessi attimi di panico, sguardi sospesi e lo scaricabarile di Beatty, che porge alla gloriosa collega la patata bollente da leggere.
Si è trattato di un cortocircuito naturalmente abbastanza paradossale, con istanti di sincero e profondo imbarazzo che alle prime luci dell’alba hanno ridestato anche i più assonnati e inebetiti tra coloro che avevano seguito la maratona da Oscar. Warren Beatty che si ritrova a dover leggere la busta con sopra scritto “Emma Stone, La La Land”, appena affermatasi come miglior attrice protagonista, anziché quella corretta, Faye Dunaway che annuncia prontamente l’Oscar al film di Chazelle per mettere una pezza all’imbarazzo dell’attore che è sul palco con lei ma finisce col peggiorare la situazione e col dar luogo al più grosso misunderstanding della storia delle statuette dorate.
Un colpo di scena del tutto inedito, che non si era mai verificato prima e che si è materializzato proprio in corrispondenza dei primi Oscar dell’era Trump: un’edizione perfino più mogia e telefonata del solito, con premi che si sono susseguiti con estrema prevedibilità e qualche scelta al ribasso nel corso della notte più lunga del cinema hollywoodiano, tra riconoscimenti tecnici più o meno discutibili (Suicide Squad su tutti) e discorsi di ringraziamento perfino più impostati e convenzionali della media di tali circostanze.
Doveva essere l’edizione dell’ennesima dichiarazione di guerra dell’establishment liberal di Hollywood contro Trump, della rivalsa della comunità nera della mecca del cinema, degli #OscarSoBlack. Le aspettative in tal senso non state disattese (gli Oscar agli attori non protagonisti Viola Davis e Mahershala Ali, al torrenziale documentario O.J.: Made in America che ha battuto Fuocoammare di Rosi), ma seguendo un copione non in grado di discostarsi dal consueto pilota automatico.
A voler fare gli avvocati del diavolo, infatti, il cortocircuito che ha chiuso la cerimonia del Dolby Theatre di Los Angeles è sintomatico di una certa tendenza degli Oscar a sedersi comodamente e pigramente sull’attualità, secondo modalità che oscillano tra la retorica e la convenienza, tra l’ecumenismo e la volontà di accontentare il più possibile le diverse voci in ballo (vanno in questa direzione premi come il montaggio sonoro di Arrival, il montaggio di La battaglia di Hacksaw Ridge, perfino la sceneggiatura originale di Kenneth Lonergan per Manchester by the Sea, tutti comunque più o meno meritati).
Quella che ha incoronato Moonlight, con la banda di La La Land già sul palco costretta a fare dietrofront, è dunque una svolta pazzesca e da far cadere la mascella per via della colossale figuraccia, ma anche l’ennesima nota al ribasso, in questo caso davvero surreale, da parte di premi sempre più guardinghi e ripiegati su stessi, talmente politically correct da preferire un debole e compassato film sull’America black di oggi, per quanto dotato di buone intuizioni e tutt’altro che trascurabile per alcune ragioni (la raffigurazione vitale e non punitiva dei corpi, i suoi contrappunti sentimentali, la messa in scena della periferia) a un manifesto generazionale di abbagliante purezza come La La Land: perfetto e consapevole simulacro dei nostri tempi a misura di rimpianto e di nostalgia innalzata a lente onnicomprensiva per leggere il presente, il passato e forse anche il futuro. Uno sliding door sentimentale e musicale anch’esso ecumenico e in grado di piacere in maniera vorace, compulsiva e un po’ leziosa praticamente a tutti, ma capace al contempo di accarezzare con eguale splendore e puntuale mestizia gli amori che quotidianamente difendiamo e quelli che, in un modo o nell’altro, abbiamo perso.
Nient’altro che una flebile frecciata a Trump e al suo razzismo sbandierato in modo selvaggio e indiscriminato verso questa o quella minoranza, allora, il trionfo di Moonlight, nonostante le 6 statuette di La La Land (regia, attrice protagonista, canzone, colonna sonora, fotografia e scenografia): a ciò si è ridotto l’Oscar 2017 come miglior film (così come il seppur ben più meritato Oscar al miglior film straniero a Il cliente di Asghar Farhadi), suggello di una stagione dei premi che secondo molti avrebbe potuto portare La La Land addirittura a ridosso del record di 11 statuette di Titanic, Ben Hur e de Il signore degli anelli – Il ritorno del re e si è conclusa invece col più didascalico degli esiti, a dispetto dell’epilogo thrilling.
In fondo, la sintesi della serata, e della sua catarsi finale di facciata, può essere affidata a una battuta tagliente e ironica pronunciata dal presentatore Jimmy Kimmel in apertura di cerimonia: “Ecco, è arrivato Trump e ce l’abbiamo fatta! Basta col razzismo!”.