«Meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un triste domani, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che che accadeva dentro di me».
Cosa lega Marcel Proust alla filmografia Pixar? Cosa ci lega in maniera indissolubile a queste opere di animazione, al punto da esserne toccati fino alle più profonde corde della nostra anima? C’è un tema che forse riesce a descrivere il fil rouge che lega tutto il percorso artistico, da Toy Story in poi, della Pixar. Un termine che inevitabilmente è legato alle nostre vite, a qualcosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, ogni giorno: il tempo. Al di là della eccellente qualità estetica e dei molteplici aspetti sotto cui è possibile leggere ogni film Pixar – da un evidente e rivoluzionario cambio di prospettiva generale, fino ad un approfondimento sulla tematica della diversità – la dimensione temporale si è rivelata centrale lungo tutto il percorso, declinata sotto svariate sfaccettature, ma sempre con la consueta cura, quella che il tempo merita.
Toy Story: il tempo di crescere
Primo lungometraggio Pixar, per la regia di John Lasseter, e vero e proprio incipit di tutta la rivoluzione messa in atto dalla casa di animazione. Una quadrilogia, al momento, in cui esiste un duplice percorso di crescita: quello di Andy e quello di Woody. Andy ci viene presentato all’età di 8 anni, al suo compleanno, quando riceve Buzz Lightyear, provocando scompiglio nel mondo dei giocattoli della sua cameretta. Per chi ha avuto la fortuna di vedere Toy Story in sala avendo l’età di Andy, il piccolo risulterà davvero come un compagno di viaggio, capace di percorrere le stesse tappe: dalla pre-adolescenza in Toy Story 2 al tempo di lasciare i giocattoli per andare al college in Toy Story 3. Il terzo film della serie è di fatto l’ultima tappa per quel che riguarda Andy, e se al termine della visione ci saranno delle lacrime a rigare il volto degli spettatori, saranno proprio dovute all’immedesimazione, al senso di quel tempo che è passato con Andy, per Andy, e soprattutto per noi. Differente il discorso che riguarda Woody, che come tutti i giocattoli scopre sulla propria pelle lo scorrere inesorabile del tempo, tra giocattoli nuovi, cicatrici e strappi sulle braccia, timore di essere abbandonati, trovando in Toy Story 4 una declinazione del tempo che ancora mancava nella sua esistenza: il tempo per i suoi sogni, per la sua vita, che non è più al servizio di qualcuno, se non di sé stesso.
Ratatouille: il tempo della memoria
Un topolino che sogna di diventare cuoco, un ristorante dal passato glorioso che ora si trova sul punto del fallimento, con il rischio di passare dall’essere stellato a produttore seriale di cibo preconfezionato. Non è un caso che la convergenza arrivi proprio in un piatto semplice, che dà il titolo al film, un piatto capace di conquistare il critico più crudele e temuto della città, una ratatouille dal sapore malinconico e dolce di un passato richiamato prepotentemente alla memoria. Come la madeleine di Proust, il piatto preparato da Linguini e Rémy trionfa perché capace di risvegliare un’infanzia ormai ritenuta sopita, e con essa la capacità di poter sognare un futuro nuovo, un domani colmo di sperimentazione, scevro di pregiudizi e in grado di far convivere l’impossibile (uomini e topi in cucina), trovando nella collaborazione tra diversità la ricetta vincente. La sinestesia estetica di Brad Bird (poi riproposta in maniera differente in Soul) è protagonista dell’opera sin dalle prime sequenze, quando Rémy prova ad insegnare al fratello Émile come sia possibile gustare i differenti sapori, mescolandoli e percependoli fino in fondo all’anima: un percorso portato al culmine con la ratatouille assaggiata da Anton Ego, dove non sono esplosioni di colore quelle che si presentano nella sua mente, ma i veri e propri ricordi sepolti di una fanciullezza troppo spesso facilmente dimenticata.
WALL•E: il tempo futuro
È il 2008 e Pixar decide di fare un balzo in avanti nel tempo, proiettandosi verso un futuro distopico in cui l’unica creatura rimasta sul pianeta Terra è un robot di nome Wall•E, che di lavoro impila i rifiuti e crea edifici che solo apparentemente ricordano abitazioni per l’uomo. Forte dell’insegnamento e dell’influenza di Hayao Miyazaki, Andrew Stanton dipinge un pianeta devastato dall’inquinamento, in cui regna il silenzio e non c’è traccia di esseri viventi, eccezion fatta per un piccolo scarafaggio. Un’opera che oscilla tra l’invito a un necessario recupero delle proprie origini – dall’incantevole animazione muta della prima parte del film a tutti gli oggetti vintage da cui il robot è estremamente affascinato – e uno sguardo (è il caso di dirlo vista l’espressività degli occhi di Wall•E) verso un domani che spaventa, ma che l’uomo ha ancora la possibilità di ricostruire, partendo da un piccolo germoglio di speranza, chiaro omaggio all’ultima inquadratura di Nausicaä della Valle del vento.
Up: il tempo di invecchiare
Nel 2009 la filografia Pixar si arricchisce di una nuova tematica da esplorare, quella che riguarda la vecchiaia e la solitudine di un uomo anziano, Carl, che dopo aver perso l’amata moglie Ellie si chiude in un guscio di rabbia e disillusione, trovando nella casa costruita con la moglie un nido per lui impossibile da abbandonare. Al punto che, piuttosto che vederla abbattuta, decide di partire per il viaggio che la coppia ha sempre sognato di fare, volando grazie a palloncini ad elio che coniugano una dimensione fantastica e di sogno a una vita segnata da molta tristezza. Non è un caso che la salvezza per Carl sarà una nuova vita da nonno putativo del piccolo Russell, a suo modo anche lui anima pura e sola, capace però di affrontare con l’anziano un’avventura colma di significati, capace di ridare nuova linfa alla vita di entrambi: un’avventura al termine della quale Carl sarà in grado di capire che è tempo di lasciar andare le cose materiali, comprendendo che il ricordo è ciò che davvero riesce a tenere per sempre con sé le persone care.
Coco: il tempo di ricordare chi non c’è più
Parlare della morte non è mai semplice, ma con Coco la Pixar trova una chiave colorata e ricca di musica (tra i veri protagonisti dell’opera) per affrontare una tematica tanto delicata e complessa: il lutto. Lee Unkrich ambienta la vicenda durante il Dìa de los muertos, festa messicana in cui viene celebrata la commemorazione dei defunti come un ricordo felice, un festa in cui si crede che le anime di coloro che ci hanno lasciato possano tornare e stare affianco alle proprie famiglie, finché almeno una persona sulla Terra si ricordi di loro. La memoria assume quindi un altro significato rispetto ai film precedenti, lo spazio-tempo in cui ci si muove è quello dell’aldilà, in cui il giovane Miguel riuscirà davvero a ritrovare quelle che sono le reali origini della sua famiglia e, quindi, quello che è il suo posto nel mondo. Morte che viene quindi letta come un arrivederci, non come un addio, come un tempo per chi è sulla terra di poter ricordare chi lo ha lasciato fisicamente ma che, grazie al ricordo (e a una canzone dal sapore di madeleine), può sempre rimanergli accanto.
Soul: il tempo di vivere
Dall’aldilà, Pixar decide di fare un balzo indietro, entrando in un ante-mondo dal sapore platonico, un luogo dove le anime vengono formate per poi fare un balzo decisivo verso la vita. Uno spazio senza tempo, intriso di eternità ma contemporaneamente segnato da un momento di fine, quello della nascita terrena, ma solo dopo aver trovato la propria scintilla. Superando ogni idealismo, Soul è un vero e proprio inno alla vita e alle piccole cose, un invito a trovare la scintilla proprio nel tempo che passiamo sulla terra, facendo esperienze e vivendo in pieno ogn singolo momento, con l’aspirazione di poter trovare attimi in cui trovarsi nella bolla (soluzione visiva strepitosa, che richiama gli assaggi di Rémy), senza trasformarla in un’ossessione che, paradossalmente, impedirebbe di vivere. Un film estremamente adulto, anche più del colorato e profondo capolavoro Inside Out, e che al di là dello schermo si rivolge molto di più “ai grandi”, quasi escludendo il pubblico più giovane. Il tempo di trovare la propria vocazione, il proprio posto nel mondo, è qui sulla terra, e se 22 avrà tutta la vita davanti per poterlo ri-scoprire, allo stesso modo Joe riuscirà a comprendere che non è mai tardi per trovare la propria realizzazione, come quel pesce che cercava l’Oceano mentre ne era immerso da sempre.
Luca: il tempo di tornare bambini
Enrico Casarosa, dopo lo splendido cortometraggio La Luna, realizza il suo primo film per la Pixar e attinge al suo passato ligure, ambientando la vicenda a Portorosso. Il frinire delle cicale, la Vespa, i colori delle case e le spiagge piene di sassi: tutto concorre ad un sentimento nostalgico e ad uno sguardo verso l’infanzia, verso un’età in cui amicizia e sogni sono in grado di superare ogni ostacolo e difficioltà, in cui tutto è amplificato. Tempi dilatati per una fiaba dalla trama semplice, che riporta Pixar a una narrazione classica per bambini, in cui la tematica della diversità (tra i leitmotiv più importanti dell’intera filmografia) non può mancare, ma dove ad essere protagonisti, dentro e fuori lo schermo, sono proprio due bambini. Non significa che un adulto debba sentirsi escluso, anzi, ma dopo opere dichiaratamente mature come Inside Out e Soul, Casarosa ha riportato le lancette indietro nel tempo, riportando i bambini a ricorprire un ruolo di primo piano, con la loro semplicità e il loro sguardo unico sul mondo.
Che Pixar sia riuscita ad attuare una vera rivoluzione è un dato quasi ovvio da evidenziare, ma quel che ha sempre stupito è come sia riuscita sin dalle sue prime opere a coniugare lo sguardo dell’adulto con quello del fanciullo. E se i più piccoli saranno accompagnati nella loro crescita attraverso avventure divertenti ed estreamamente colorate, una volta diventati grandi potranno nuovamente riassaporarle ed emozionarsi in maniera differente, come se stessero assaggiando delle piccole madeleine.
Lorenzo Bianchi
Cosa lega Marcel Proust alla filmografia Pixar? Cosa ci lega in maniera indissolubile a queste opere di animazione, al punto da esserne toccati fino alle più profonde corde della nostra anima? C’è un tema che forse riesce a descrivere il fil rouge che lega tutto il percorso artistico, da Toy Story in poi, della Pixar. Un termine che inevitabilmente è legato alle nostre vite, a qualcosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, ogni giorno: il tempo. Al di là della eccellente qualità estetica e dei molteplici aspetti sotto cui è possibile leggere ogni film Pixar – da un evidente e rivoluzionario cambio di prospettiva generale, fino ad un approfondimento sulla tematica della diversità – la dimensione temporale si è rivelata centrale lungo tutto il percorso, declinata sotto svariate sfaccettature, ma sempre con la consueta cura, quella che il tempo merita.
Toy Story: il tempo di crescere
Ratatouille: il tempo della memoria
WALL•E: il tempo futuro
Up: il tempo di invecchiare
Coco: il tempo di ricordare chi non c’è più
Parlare della morte non è mai semplice, ma con Coco la Pixar trova una chiave colorata e ricca di musica (tra i veri protagonisti dell’opera) per affrontare una tematica tanto delicata e complessa: il lutto. Lee Unkrich ambienta la vicenda durante il Dìa de los muertos, festa messicana in cui viene celebrata la commemorazione dei defunti come un ricordo felice, un festa in cui si crede che le anime di coloro che ci hanno lasciato possano tornare e stare affianco alle proprie famiglie, finché almeno una persona sulla Terra si ricordi di loro. La memoria assume quindi un altro significato rispetto ai film precedenti, lo spazio-tempo in cui ci si muove è quello dell’aldilà, in cui il giovane Miguel riuscirà davvero a ritrovare quelle che sono le reali origini della sua famiglia e, quindi, quello che è il suo posto nel mondo. Morte che viene quindi letta come un arrivederci, non come un addio, come un tempo per chi è sulla terra di poter ricordare chi lo ha lasciato fisicamente ma che, grazie al ricordo (e a una canzone dal sapore di madeleine), può sempre rimanergli accanto.
Soul: il tempo di vivere
Luca: il tempo di tornare bambini
Enrico Casarosa, dopo lo splendido cortometraggio La Luna, realizza il suo primo film per la Pixar e attinge al suo passato ligure, ambientando la vicenda a Portorosso. Il frinire delle cicale, la Vespa, i colori delle case e le spiagge piene di sassi: tutto concorre ad un sentimento nostalgico e ad uno sguardo verso l’infanzia, verso un’età in cui amicizia e sogni sono in grado di superare ogni ostacolo e difficioltà, in cui tutto è amplificato. Tempi dilatati per una fiaba dalla trama semplice, che riporta Pixar a una narrazione classica per bambini, in cui la tematica della diversità (tra i leitmotiv più importanti dell’intera filmografia) non può mancare, ma dove ad essere protagonisti, dentro e fuori lo schermo, sono proprio due bambini. Non significa che un adulto debba sentirsi escluso, anzi, ma dopo opere dichiaratamente mature come Inside Out e Soul, Casarosa ha riportato le lancette indietro nel tempo, riportando i bambini a ricorprire un ruolo di primo piano, con la loro semplicità e il loro sguardo unico sul mondo.
Che Pixar sia riuscita ad attuare una vera rivoluzione è un dato quasi ovvio da evidenziare, ma quel che ha sempre stupito è come sia riuscita sin dalle sue prime opere a coniugare lo sguardo dell’adulto con quello del fanciullo. E se i più piccoli saranno accompagnati nella loro crescita attraverso avventure divertenti ed estreamamente colorate, una volta diventati grandi potranno nuovamente riassaporarle ed emozionarsi in maniera differente, come se stessero assaggiando delle piccole madeleine.
Lorenzo Bianchi