Era il 1962 quando nasceva sul grande schermo uno dei personaggi più iconici di sempre, James Bond. Nato dalla penna di Ian Fleming nel 1953, il celebre agente segreto al servizio segreto di Sua Maestà è stato il trampolino di lancio di Sean Connery, scozzese classe 1930, diamante grezzo modellato dal regista Terence Young a suon di “lezioni” da gentleman inglese e abiti sartoriali di Anthony Sinclair, che al provino decisivo colpì il produttore Albert “Cubby” Broccoli per la sua felina camminata.
Affascinante, ironico e mai sopra le righe, Connery non è stato però solo 007: nel corso della sua straordinaria carriera, durata quasi mezzo secolo, ha prestato il suo inimitabile portamento a personaggi anche molto diversi tra loro, attraversando i generi e i decenni con una grande capacità di rinnovamento. Impossibile dimenticare le sue collaborazioni con registi del calibro di Alfred Htchcock, Sidney Lumet, John Milius, John Huston, Brian De Palma e Steven Spielberg, solo per fare qualche esempio. E allora ecco di seguito la classifica dei nostri dieci film del cuore interpretati dal mitico Sean Connery:
10) Zardoz (John Boorman, 1974)
Girato in totale autonomia produttiva e con forti limiti di budget da John Boorman dopo il successo di Un tranquillo weekend di paura (1972), Zardoz è uno dei più bizzarri e discussi film di fantascienza degli anni '70. Caratterizzato da una esuberanza stilistica spesso stucchevole e da una evidente confusione nella storyline, rappresenta tuttavia un interessante esempio di pura creatività autoriale, con molte sequenze non prive di un forte fascino allegorico: dall'enorme testa di Zardoz che sputa armi per gli “sterminatori” fino alla sequenza psichedelica della stanza dove gli eletti, appena morti, rinascono sotto forma di feti. Inoltre, facendosi largo a colpi di machete nella giunga di simbolismi grotteschi e bizzarri, è possibile intravedere l'asse portante della filmografia di John Boorman: lo scontro tra progresso e natura. E Connery, nel suo costume meravigliosamente kitsch, è entrato nella leggenda. Da riscoprire.
9) Il nome della rosa (Jean-Jacques Annaud, 1986)
«Il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede». Jean-Jacques Annaud affronta l'ardua impresa di adattare l'omonimo romanzo di Umberto Eco (1980), tra i più importanti e significativi del XX secolo, e fa centro, asciugando l'impianto teologico che caratterizzava l'opera scritta (in quanto non rappresentabile sullo schermo), per concentrarsi sul climax tensivo veicolato dal mistero delle uccisioni. Memorabile la struttura labirintica della biblioteca, chiave di segreti indicibili simbolizzata dall'inquietante Jorge da Burgos. Fulcro assoluto del film, la figura del Guglielmo di Baskerville interpretato da Connery (a cui va tutta la simpatia del regista e dello spettatore), uomo di grande ingegno e di spiccata sensibilità, metafora di una giustizia impensabile nel contesto inquisitorio dell'epoca. Confezione ineccepibile per uno spettacolo di alto livello, nonostante qualche dialogo eccessivamente didascalico. Fotografia di Tonino Delli Colli, musiche di James Horner, scene di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, costumi di Gabriella Pescucci.
8) Robin e Marian (Richard Lester, 1976)
Provando a prendere le distanza dall'ingombrante tradizione cinematografica che circonda la figura di Robin Hood, Richard Lester firma una versione malinconica e crepuscolare, capace di affascinare per il suo spirito più intraprendente e originale con cui prova a leggere in chiave diversa uno dei miti più popolari di sempre. Una struggente elegia sullo scorrere del tempo e sull'amore che vince ogni avversità. Avventura e romaticismo vecchio stile, con qualche momento di stanca, che culmina in un finale di rara bellezza. La coppia Connery/Hepburn fa faville, ma meritano una menzione speciale anche Robert Shaw (lo sceriffo di Nottingham), Richard Harris (Riccardo Cuor di Leone) e Nicol Williamson (Little John).
7) La collina del disonore (Sidney Lumet 1965)
Africa, Seconda guerra mondiale. Alcuni soldati inglesi, tra cui il violento Joe Roberts (Sean Connery), sono rinchiusi in un campo di disciplina: dovranno affrontare la crudeltà dello spietato sergente Williams (Ian Hendry). Da una sceneggiatura di Ray Rigby, cui andò il premio al Festival di Cannes, un potente atto d'accusa nei confronti del militarismo, raccontato con la stessa durezza tratteggiata nel sergente, che non arretra mai di fronte a nulla. Munito di affilatissimo spunto polemico e di uno stile asciutto e funzionale, Sidney Lumet porta la storia e il destino dei suoi personaggi sino alle estreme conseguenze, rivelando la natura inarrestabile e circolare della violenza e della sopraffazione. Memorabile prova di Connery il quale, nell'anno in cui James Bond è all'apice della popolarità e diventa un fenomeno culturale di massa, si mette in gioco in un ruolo tutt'altro che accomodante.
6) Marnie (Alfred Hitchcock, 1964)
Dramma anomalo capace di mettere sottilmente a disagio lo spettatore con trovate coraggiose (per non dire scioccanti), Marnie è la quintessenza della psicanalisi al cinema, resa memorabile dallo stile unico del maestro Hitchcock. Ritratto femminile sui generis, indagine sulle perversioni nel rapporto di coppia, mystery morboso: questi gli elementi di base di un film dal fascino unico, a tratti squilibrato tra eccessi visivi e dialoghi innaturali, costantemente dominato da un'atmosfera torbida, incentrata sulla sessualità, che non si dimentica. Grande prova di Tippi Hedren, ancora stremata dal capolavoro precedente, Gli uccelli (1963), che, come noto, ebbe più di un problema con il regista durante le riprese. Ma è da segnalare anche Connery che, nell'anno di Goldfinger, si trova impegnato nel ruolo più "sgradevole" di tutta la sua carriera.
5) Il vento e il leone (John Milius, 1975)
L'opera seconda di John Milius rielabora molto liberamente una vicenda realmente accaduta per dare vita a un'epopea esotica dotata di spirito d'avventura d'altri tempi. Amante dell'epica e degli eroi solitari, il regista non bada troppo alla verosimiglianza storica e preferisce dar vita a puro spettacolo, tra il romanticismo di stampo fordiano e la grandeur del cinema di David Lean (soprattutto di Lawrence d'Arabia, evidente modello visivo con cui ha in comune anche alcune location). Tra gli splendidi scenari, le musiche trascinanti di Jerry Goldsmith e una vena ironica che percorre l'intero film, il divertimento è assicurato. E poi, ci sono uno Sean Connery straordinariamente iconico e un bravissimo Brian Keith nei panni di Theodore Roosevelt, personaggio-simbolo con cui Milius offre una lezione sulla cultura americana.
4) The Untouchables – Gli intoccabili (Brian De Palma, 1987)
Brian De Palma mette da parte gli omaggi ad Alfred Hitchcock per confezionare un gangster movie di puro intrattenimento dalle cadenze western, che strizza l'occhio al grande pubblico e omaggia il cinema classico di ampio respiro. Strepitoso esempio di cinema formalmente impeccabile ma refrattario a qualsiasi freddezza, capace al contrario di emozionare e rimanere scolpito nella memoria dello spettatore grazie a una regia funzionale (anche nei suoi virtuosismi) e a una storia appassionante perfettamente orchestrata. Anche l'esorbitante Al Capone, cui un divertito Robert De Niro presta il volto, funziona a meraviglia all'interno di un prodotto brillante e altamente spettacolare. Almeno due i momenti indimenticabili: la sequenza della carrozzina che omaggia La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e quella della morte di Sean Connery, che per il ruolo dell'irlandese Malone si è aggiudicato l'Oscar come miglior attore non protagonista. Sceneggiatura calibrata al millimetro di David Mamet, fotografia di Stephen H. Burum ed esaltante colonna sonora di Ennio Morricone. Una meraviglia.
3) L'uomo che volle farsi re (John Huston, 1975)
Dal romanzo L'uomo che volle essere re di Rudyard Kipling, che nel film ha un ruolo piuttosto rilevante e viene interpretato da Christopher Plummer, nasce un dramma avventuroso dal respiro d'altri tempi, coltivato da Huston per due decenni, segnato da epica grandiosità, abbondanti dosi di humour e paesaggi suggestivi (l'India e il rurale Afghanistan ricostruiti in Marocco). Un'intelligente satira che sbeffeggia la cupidigia, la disumanità e la stupidità che stanno alla base del colonialismo, rappresentate da due protagonisti che si credono bigger than life e finiscono col rivelarsi solo folli e meschini (sebbene la guasconeria e la sincerità della loro amicizia virile stimoli la simpatia dello spettatore). Memorabili Michael Caine e Sean Connery. Musiche di Maurice Jarre, fotografia di Oswald Morris. Uno dei film più belli e sottovalutati degli anni '70.
2) Indiana Jones e l'ultima crociata (Steven Spielberg, 1989)
Giunta al terzo capitolo, la saga di Indiana Jones raggiunge la perfezione assoluta, ricalcando (e raffinando ulteriormente) la ricetta vincente dei due episodi precedenti. Azione, avventura e humor diventano la meravigliosa base per costruire un'irresistibile dinamica conflittuale del rapporto tra Indy (Harrison Ford) e suo padre (Sean Connery), sublimata dalla ricerca del Graal. Secondo Steven Spielberg, soltanto l'autentico James Bond poteva impersonare il padre di Indiana Jones e il risultato del film gli ha dato pienamente ragione. Magnifica la scelta delle location, tra Venezia, Petra e i deserti di Utah e Colorado. Cinema allo stato puro.
1) Agente 007 – Missione Goldfinger (Guy Hamilton, 1964)
Con il terzo film, la saga di 007 si impone come fenomeno socio-culturale di massa, decretando il definitivo successo popolare di un personaggio destinato a diventare per i fan un inarrivabile modello a cui tendere, capace di portare lo spettatore in una dimensione altra, fatta di ironia, avventura, pericolo, sesso e Vodka Martini («Shaken, not stirred»). Nasce proprio nel 1964 la cosiddetta “formula Goldfinger”, teorizzata anche da Roger Ebert e Umberto Eco (noto “bondologo”), che codifica la struttura narrativa in quella serie di passaggi che, da questo momento, verrà rispettata praticamente in tutti i film della serie, fino alla rottura con la tradizione segnata da Casino Royale (2006). La pellicola, entrata nell'immaginario collettivo per la presenza iconica di Sean Connery (qui “superuomo” più che mai) che, mostrando un impeccabile tuxedo bianco con tanto di garofano rosso all'occhiello sotto alla muta da sub, ha annullato qualsiasi altro modello di agente segreto trasformandosi in un vero e proprio manifesto di cultura pop anni '60 capace di fondere cinema, musica e letteratura di genere. Accattivante nelle immagini grazie alle straordinarie scenografie di Ken Adam, spassoso nel riuscito mix di fanta-avventura e azione, trasgressivo nelle provocanti allusioni sessuali: una su tutte la squadra di pupe bionde agli ordini di Pussy Galore, integerrima “cattiva” dal nome evocativo refrattaria agli uomini (ma non a James Bond, naturalmente). Indimenticabile.
«Ci sono delle cose che assolutamente non si fanno. Per esempio bere Dom Perignon del '53 a una temperatura superiore ai 4 gradi centigradi: sarebbe peggio che ascoltare i Beatles senza tappi nelle orecchie». (Agente 007 – Missione Goldfinger, 1964)
Affascinante, ironico e mai sopra le righe, Connery non è stato però solo 007: nel corso della sua straordinaria carriera, durata quasi mezzo secolo, ha prestato il suo inimitabile portamento a personaggi anche molto diversi tra loro, attraversando i generi e i decenni con una grande capacità di rinnovamento. Impossibile dimenticare le sue collaborazioni con registi del calibro di Alfred Htchcock, Sidney Lumet, John Milius, John Huston, Brian De Palma e Steven Spielberg, solo per fare qualche esempio. E allora ecco di seguito la classifica dei nostri dieci film del cuore interpretati dal mitico Sean Connery:
10) Zardoz (John Boorman, 1974)
Girato in totale autonomia produttiva e con forti limiti di budget da John Boorman dopo il successo di Un tranquillo weekend di paura (1972), Zardoz è uno dei più bizzarri e discussi film di fantascienza degli anni '70. Caratterizzato da una esuberanza stilistica spesso stucchevole e da una evidente confusione nella storyline, rappresenta tuttavia un interessante esempio di pura creatività autoriale, con molte sequenze non prive di un forte fascino allegorico: dall'enorme testa di Zardoz che sputa armi per gli “sterminatori” fino alla sequenza psichedelica della stanza dove gli eletti, appena morti, rinascono sotto forma di feti. Inoltre, facendosi largo a colpi di machete nella giunga di simbolismi grotteschi e bizzarri, è possibile intravedere l'asse portante della filmografia di John Boorman: lo scontro tra progresso e natura. E Connery, nel suo costume meravigliosamente kitsch, è entrato nella leggenda. Da riscoprire.
9) Il nome della rosa (Jean-Jacques Annaud, 1986)
«Il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede». Jean-Jacques Annaud affronta l'ardua impresa di adattare l'omonimo romanzo di Umberto Eco (1980), tra i più importanti e significativi del XX secolo, e fa centro, asciugando l'impianto teologico che caratterizzava l'opera scritta (in quanto non rappresentabile sullo schermo), per concentrarsi sul climax tensivo veicolato dal mistero delle uccisioni. Memorabile la struttura labirintica della biblioteca, chiave di segreti indicibili simbolizzata dall'inquietante Jorge da Burgos. Fulcro assoluto del film, la figura del Guglielmo di Baskerville interpretato da Connery (a cui va tutta la simpatia del regista e dello spettatore), uomo di grande ingegno e di spiccata sensibilità, metafora di una giustizia impensabile nel contesto inquisitorio dell'epoca. Confezione ineccepibile per uno spettacolo di alto livello, nonostante qualche dialogo eccessivamente didascalico. Fotografia di Tonino Delli Colli, musiche di James Horner, scene di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, costumi di Gabriella Pescucci.
8) Robin e Marian (Richard Lester, 1976)
Provando a prendere le distanza dall'ingombrante tradizione cinematografica che circonda la figura di Robin Hood, Richard Lester firma una versione malinconica e crepuscolare, capace di affascinare per il suo spirito più intraprendente e originale con cui prova a leggere in chiave diversa uno dei miti più popolari di sempre. Una struggente elegia sullo scorrere del tempo e sull'amore che vince ogni avversità. Avventura e romaticismo vecchio stile, con qualche momento di stanca, che culmina in un finale di rara bellezza. La coppia Connery/Hepburn fa faville, ma meritano una menzione speciale anche Robert Shaw (lo sceriffo di Nottingham), Richard Harris (Riccardo Cuor di Leone) e Nicol Williamson (Little John).
7) La collina del disonore (Sidney Lumet 1965)
Africa, Seconda guerra mondiale. Alcuni soldati inglesi, tra cui il violento Joe Roberts (Sean Connery), sono rinchiusi in un campo di disciplina: dovranno affrontare la crudeltà dello spietato sergente Williams (Ian Hendry). Da una sceneggiatura di Ray Rigby, cui andò il premio al Festival di Cannes, un potente atto d'accusa nei confronti del militarismo, raccontato con la stessa durezza tratteggiata nel sergente, che non arretra mai di fronte a nulla. Munito di affilatissimo spunto polemico e di uno stile asciutto e funzionale, Sidney Lumet porta la storia e il destino dei suoi personaggi sino alle estreme conseguenze, rivelando la natura inarrestabile e circolare della violenza e della sopraffazione. Memorabile prova di Connery il quale, nell'anno in cui James Bond è all'apice della popolarità e diventa un fenomeno culturale di massa, si mette in gioco in un ruolo tutt'altro che accomodante.
6) Marnie (Alfred Hitchcock, 1964)
Dramma anomalo capace di mettere sottilmente a disagio lo spettatore con trovate coraggiose (per non dire scioccanti), Marnie è la quintessenza della psicanalisi al cinema, resa memorabile dallo stile unico del maestro Hitchcock. Ritratto femminile sui generis, indagine sulle perversioni nel rapporto di coppia, mystery morboso: questi gli elementi di base di un film dal fascino unico, a tratti squilibrato tra eccessi visivi e dialoghi innaturali, costantemente dominato da un'atmosfera torbida, incentrata sulla sessualità, che non si dimentica. Grande prova di Tippi Hedren, ancora stremata dal capolavoro precedente, Gli uccelli (1963), che, come noto, ebbe più di un problema con il regista durante le riprese. Ma è da segnalare anche Connery che, nell'anno di Goldfinger, si trova impegnato nel ruolo più "sgradevole" di tutta la sua carriera.
5) Il vento e il leone (John Milius, 1975)
L'opera seconda di John Milius rielabora molto liberamente una vicenda realmente accaduta per dare vita a un'epopea esotica dotata di spirito d'avventura d'altri tempi. Amante dell'epica e degli eroi solitari, il regista non bada troppo alla verosimiglianza storica e preferisce dar vita a puro spettacolo, tra il romanticismo di stampo fordiano e la grandeur del cinema di David Lean (soprattutto di Lawrence d'Arabia, evidente modello visivo con cui ha in comune anche alcune location). Tra gli splendidi scenari, le musiche trascinanti di Jerry Goldsmith e una vena ironica che percorre l'intero film, il divertimento è assicurato. E poi, ci sono uno Sean Connery straordinariamente iconico e un bravissimo Brian Keith nei panni di Theodore Roosevelt, personaggio-simbolo con cui Milius offre una lezione sulla cultura americana.
4) The Untouchables – Gli intoccabili (Brian De Palma, 1987)
Brian De Palma mette da parte gli omaggi ad Alfred Hitchcock per confezionare un gangster movie di puro intrattenimento dalle cadenze western, che strizza l'occhio al grande pubblico e omaggia il cinema classico di ampio respiro. Strepitoso esempio di cinema formalmente impeccabile ma refrattario a qualsiasi freddezza, capace al contrario di emozionare e rimanere scolpito nella memoria dello spettatore grazie a una regia funzionale (anche nei suoi virtuosismi) e a una storia appassionante perfettamente orchestrata. Anche l'esorbitante Al Capone, cui un divertito Robert De Niro presta il volto, funziona a meraviglia all'interno di un prodotto brillante e altamente spettacolare. Almeno due i momenti indimenticabili: la sequenza della carrozzina che omaggia La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e quella della morte di Sean Connery, che per il ruolo dell'irlandese Malone si è aggiudicato l'Oscar come miglior attore non protagonista. Sceneggiatura calibrata al millimetro di David Mamet, fotografia di Stephen H. Burum ed esaltante colonna sonora di Ennio Morricone. Una meraviglia.
3) L'uomo che volle farsi re (John Huston, 1975)
Dal romanzo L'uomo che volle essere re di Rudyard Kipling, che nel film ha un ruolo piuttosto rilevante e viene interpretato da Christopher Plummer, nasce un dramma avventuroso dal respiro d'altri tempi, coltivato da Huston per due decenni, segnato da epica grandiosità, abbondanti dosi di humour e paesaggi suggestivi (l'India e il rurale Afghanistan ricostruiti in Marocco). Un'intelligente satira che sbeffeggia la cupidigia, la disumanità e la stupidità che stanno alla base del colonialismo, rappresentate da due protagonisti che si credono bigger than life e finiscono col rivelarsi solo folli e meschini (sebbene la guasconeria e la sincerità della loro amicizia virile stimoli la simpatia dello spettatore). Memorabili Michael Caine e Sean Connery. Musiche di Maurice Jarre, fotografia di Oswald Morris. Uno dei film più belli e sottovalutati degli anni '70.
2) Indiana Jones e l'ultima crociata (Steven Spielberg, 1989)
Giunta al terzo capitolo, la saga di Indiana Jones raggiunge la perfezione assoluta, ricalcando (e raffinando ulteriormente) la ricetta vincente dei due episodi precedenti. Azione, avventura e humor diventano la meravigliosa base per costruire un'irresistibile dinamica conflittuale del rapporto tra Indy (Harrison Ford) e suo padre (Sean Connery), sublimata dalla ricerca del Graal. Secondo Steven Spielberg, soltanto l'autentico James Bond poteva impersonare il padre di Indiana Jones e il risultato del film gli ha dato pienamente ragione. Magnifica la scelta delle location, tra Venezia, Petra e i deserti di Utah e Colorado. Cinema allo stato puro.
1) Agente 007 – Missione Goldfinger (Guy Hamilton, 1964)
Con il terzo film, la saga di 007 si impone come fenomeno socio-culturale di massa, decretando il definitivo successo popolare di un personaggio destinato a diventare per i fan un inarrivabile modello a cui tendere, capace di portare lo spettatore in una dimensione altra, fatta di ironia, avventura, pericolo, sesso e Vodka Martini («Shaken, not stirred»). Nasce proprio nel 1964 la cosiddetta “formula Goldfinger”, teorizzata anche da Roger Ebert e Umberto Eco (noto “bondologo”), che codifica la struttura narrativa in quella serie di passaggi che, da questo momento, verrà rispettata praticamente in tutti i film della serie, fino alla rottura con la tradizione segnata da Casino Royale (2006). La pellicola, entrata nell'immaginario collettivo per la presenza iconica di Sean Connery (qui “superuomo” più che mai) che, mostrando un impeccabile tuxedo bianco con tanto di garofano rosso all'occhiello sotto alla muta da sub, ha annullato qualsiasi altro modello di agente segreto trasformandosi in un vero e proprio manifesto di cultura pop anni '60 capace di fondere cinema, musica e letteratura di genere. Accattivante nelle immagini grazie alle straordinarie scenografie di Ken Adam, spassoso nel riuscito mix di fanta-avventura e azione, trasgressivo nelle provocanti allusioni sessuali: una su tutte la squadra di pupe bionde agli ordini di Pussy Galore, integerrima “cattiva” dal nome evocativo refrattaria agli uomini (ma non a James Bond, naturalmente). Indimenticabile.