«Why’d you make me look like that?!»
«In the film?»
«Yes, in the film! What’s the matter with you?! I’ve been a, a total asshole to you! I broke your nose! And, and then…»
«You didn’t break my nose, you almost did but you didn’t break it».
«… then you go and make me look like... like that!? What’s wrong with you?!»
«Logan. All I did was hold the camera and it saw what it saw»
Tra le diverse sequenze memorabili di The Fabelmans, questo dialogo rischia di passare inosservato o, comunque, in secondo piano. Tuttavia, è uno scambio che racchiude in sé quantomeno una parte del cuore del discorso affrontato da Steven Spielberg lungo il film, portando definitivamente la macchina da presa in primissimo piano, elevandola in maniera esplicita tra i protagonisti/personaggi dell’intera opera. Ed è proprio la risposta di Sammy («Logan. All I did was hold the camera and it saw what it saw») a risultare così emblematica, nonostante sia allo stesso tempo evidentemente contraddittoria.
Da un lato è chiaro il desiderio di Spielberg di dare allo spettatore un ruolo attivo nella visione del film: infatti, come un libro senza lettore resta semplicemente inchiostro muto su carta bianca, allo stesso modo una pellicola senza spettatori è destinata a rimanere nell’anonimato. Se dunque l’atto del vedere un film rimane imprescindibile perché l’opera possa prendere vita, allo stesso tempo c’è una dimensione ulteriore da considerare, ossia la potenziale molteplicità di sguardi che si posano sulla pellicola e, con essi, le relative interpretazioni, con conseguenti emozioni provate: lo spettatore attraverso lo schermo vede, osserva, vive e interpreta. Il messaggio del regista in questo caso sembra lasciare pochi dubbi: al di là delle intenzioni dell’artista, l’opera parla in maniera differente a seconda degli occhi di chi la osserva e la ascolta. Questo non significa certo che i film siano dei prodotti soggettivi, un mero flusso di immagini giustapposte cui ogni spettatore può dare un personale giudizio, ma è innegabile che ogni film possa essere percepito in maniera differente da chiunque lo veda, e le variabili sono molteplici: la propria storia personale, la propria sensibilità, l’età, il vissuto in una determinata fase di vita, il background culturale e soggettivo.
Tuttavia, la contraddizione è evidente, perché è chiaro che il processo di creazione di un film sia (o almeno, dovrebbe essere) un atto desiderato e che dalla pre-produzione al montaggio finale sia tutto frutto di scelte ponderate e mai casuali, da parte del regista. Sammy, aspirante cineasta, ci presenta esattamente questo, ma su due livelli. Il primo è quello tecnico e stilistico, in cui sono mostrati tutti gli artifici e le soluzioni estetiche messe in atto in sede di riprese e che poi produrranno la magia del cinema (basti pensare alle sequenze western o allo yogurt che finisce sul volto dei bagnanti in spiaggia), ma anche la scelta di un’inquadratura a discapito di un’altra. Il secondo, quello più interessante nella cornice di questo discorso, è quello relativo all’incomunicabilità, in cui la macchina da presa diventa la voce con cui esprimere i propri pensieri, le proprie emozioni, per esternare ciò che non si riesce a dire con le semplici parole: che Sammy rappresenti in quel modo Logan è perché lui lo vede in quel modo (quindi, piuttosto che «it saw what it saw» sarebbe meglio «it saw what I saw») ma non ne ha ancora piena coscienza, quindi, e da qui la contraddizione propria della fase d’età che sta attraversando. Ma, soprattutto, quando Sammy decide di rivelare alla madre che lui conosce la verità lo fa attraverso un video girato durante una vacanza, un cortometraggio che da esperimento diventa strumento chiave per comuncare una verità dolorosa, per lui impossibile da verbalizzare, una ferita della quale l’alter ego reale di Sammy, ossia Steven, è riuscito a parlare, anche lui attraverso The Fabelmans, sorta di percorso di autoanalisi, dopo averla presentata in sottofondo tante volte lungo la sua filmografia, tra bimbi sperduti o figli che fuggono da genitori che stanno divorziando.
Una verità presentata attraverso uno schermo, che, come da etimologia, può essere contemporaneamente protezione e racconto di sé, un mezzo attraverso cui mostrarsi e allo stesso tempo nascondersi. Il tutto, in questo film incantevole, è possibile grazie ad una macchina da presa che evolve con il passare dei minuti, Sammy ne utilizza sempre di nuove e migliori di pari passo con la sua consapevolezza che quello è il suo linguaggio, quello con cui la finzione può racchiudere la realtà, in cui la magia del cinema può diventare catarsi e curare anche le ferite più profonde.
Lorenzo Bianchi
«In the film?»
«Yes, in the film! What’s the matter with you?! I’ve been a, a total asshole to you! I broke your nose! And, and then…»
«You didn’t break my nose, you almost did but you didn’t break it».
«… then you go and make me look like... like that!? What’s wrong with you?!»
«Logan. All I did was hold the camera and it saw what it saw»
Tra le diverse sequenze memorabili di The Fabelmans, questo dialogo rischia di passare inosservato o, comunque, in secondo piano. Tuttavia, è uno scambio che racchiude in sé quantomeno una parte del cuore del discorso affrontato da Steven Spielberg lungo il film, portando definitivamente la macchina da presa in primissimo piano, elevandola in maniera esplicita tra i protagonisti/personaggi dell’intera opera. Ed è proprio la risposta di Sammy («Logan. All I did was hold the camera and it saw what it saw») a risultare così emblematica, nonostante sia allo stesso tempo evidentemente contraddittoria.
Da un lato è chiaro il desiderio di Spielberg di dare allo spettatore un ruolo attivo nella visione del film: infatti, come un libro senza lettore resta semplicemente inchiostro muto su carta bianca, allo stesso modo una pellicola senza spettatori è destinata a rimanere nell’anonimato. Se dunque l’atto del vedere un film rimane imprescindibile perché l’opera possa prendere vita, allo stesso tempo c’è una dimensione ulteriore da considerare, ossia la potenziale molteplicità di sguardi che si posano sulla pellicola e, con essi, le relative interpretazioni, con conseguenti emozioni provate: lo spettatore attraverso lo schermo vede, osserva, vive e interpreta. Il messaggio del regista in questo caso sembra lasciare pochi dubbi: al di là delle intenzioni dell’artista, l’opera parla in maniera differente a seconda degli occhi di chi la osserva e la ascolta. Questo non significa certo che i film siano dei prodotti soggettivi, un mero flusso di immagini giustapposte cui ogni spettatore può dare un personale giudizio, ma è innegabile che ogni film possa essere percepito in maniera differente da chiunque lo veda, e le variabili sono molteplici: la propria storia personale, la propria sensibilità, l’età, il vissuto in una determinata fase di vita, il background culturale e soggettivo.
Tuttavia, la contraddizione è evidente, perché è chiaro che il processo di creazione di un film sia (o almeno, dovrebbe essere) un atto desiderato e che dalla pre-produzione al montaggio finale sia tutto frutto di scelte ponderate e mai casuali, da parte del regista. Sammy, aspirante cineasta, ci presenta esattamente questo, ma su due livelli. Il primo è quello tecnico e stilistico, in cui sono mostrati tutti gli artifici e le soluzioni estetiche messe in atto in sede di riprese e che poi produrranno la magia del cinema (basti pensare alle sequenze western o allo yogurt che finisce sul volto dei bagnanti in spiaggia), ma anche la scelta di un’inquadratura a discapito di un’altra. Il secondo, quello più interessante nella cornice di questo discorso, è quello relativo all’incomunicabilità, in cui la macchina da presa diventa la voce con cui esprimere i propri pensieri, le proprie emozioni, per esternare ciò che non si riesce a dire con le semplici parole: che Sammy rappresenti in quel modo Logan è perché lui lo vede in quel modo (quindi, piuttosto che «it saw what it saw» sarebbe meglio «it saw what I saw») ma non ne ha ancora piena coscienza, quindi, e da qui la contraddizione propria della fase d’età che sta attraversando. Ma, soprattutto, quando Sammy decide di rivelare alla madre che lui conosce la verità lo fa attraverso un video girato durante una vacanza, un cortometraggio che da esperimento diventa strumento chiave per comuncare una verità dolorosa, per lui impossibile da verbalizzare, una ferita della quale l’alter ego reale di Sammy, ossia Steven, è riuscito a parlare, anche lui attraverso The Fabelmans, sorta di percorso di autoanalisi, dopo averla presentata in sottofondo tante volte lungo la sua filmografia, tra bimbi sperduti o figli che fuggono da genitori che stanno divorziando.
Una verità presentata attraverso uno schermo, che, come da etimologia, può essere contemporaneamente protezione e racconto di sé, un mezzo attraverso cui mostrarsi e allo stesso tempo nascondersi. Il tutto, in questo film incantevole, è possibile grazie ad una macchina da presa che evolve con il passare dei minuti, Sammy ne utilizza sempre di nuove e migliori di pari passo con la sua consapevolezza che quello è il suo linguaggio, quello con cui la finzione può racchiudere la realtà, in cui la magia del cinema può diventare catarsi e curare anche le ferite più profonde.
Lorenzo Bianchi