Cetto c'è – Senzadubbiamente
2019
Paese
Italia
Genere
Commedia
Durata
90 min.
Formato
Colore
Regista
Giulio Manfredonia
Attori
Antonio Albanese
Paola Lavini
Gianfelice Imparato
Nicola Rignanese
Lorenza Indovina
A dieci anni dalla sua elezione a sindaco di Marina di Sopra di Cetto La Qualunque (Antonio Albanese) si erano perse le tracce. Scopriamo che vive in Germania e, messa da parte ogni ambizione politica, oggi per i tedeschi è soltanto un irresistibile e pittoresco imprenditore di successo, che considera la Germania una terra di conquiste e la mafia un marchio di qualità. La sua catena di ristoranti e pizzerie infatti spopola; ha una bella compagna tedesca (Caterina Shulha) e due suoceri neonazisti che lo guardano con la simpatia riservata ai migranti.
Terzo film dedicato allo spregiudicato e volgarissimo politico calabrese incarnato da Antonio Albanese dopo Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012), Cetto c’è, senza dubbiamente, a ben sette anni di distanza dal secondo capitolo della trilogia, ripropone senza troppa ispirazione i cavalli di battaglia e i tormentoni del personaggio, consolidati da numerose apparizioni televisive e da un posto di riguardo nell’immaginario collettivo. La trovata di fare di Cetto il plenipotenziario di un meridionalissimo regno immaginario sconta però una pochezza cinematografica e d’ispirazione non indifferente: la dimensione favolistica della satira politica non è infatti mai legittimata da scenografie all’altezza e la regia di Giulio Manfredonia, orfana di qualsiasi sospensione dell’incredulità che possa andare oltre la frammentarietà degli sketch, si arrabatta pigramente tra scenette all’acqua di rose e stoccate fuori tempo massimo. In coda al 2019 e in tempi di post-berlusconismo, infatti, la maschera iperrealista di La Qualunque appare ormai particolarmente invecchiata e logora e la confezione non aiuta, a causa di un montaggio pigro e deficitario e di sequenze e snodi poco valorizzati dalla sciatteria generale, che investe tanto le ambientazioni (il comune retto dal figlio di Cetto, Melo, ricreato alla bell’e meglio al Campus X di Tor Vergata a Roma, residenza universitaria) quanto i pallidissimi riferimenti all’attualità, sparuti e circoscritti esclusivamente all’inizio e alla fine del lungometraggio: dalla parrucca bionda di Donald Trump, già scomodata da Christian De Sica in Poveri ma bellissimi (2017) di Fausto Brizzi, all’influenza della comunicazione su web e social per il referendum finale, che arriva quando ormai il film si avvia alla conclusione. L’unica sequenza in cui si sorride più marcatamente, corredata di citazioni napoleoniche, arriva anch’essa troppo tardi. Da registrare anche una trascurabile, inequivocabile e un po’ incomprensibile citazione letterale de La grande bellezza (2013) in un frangente in cui vengono fugacemente inquadrate delle suore. Sui titoli di coda c’è spazio per un momento musicale con Cetto impegnato in un featuring con il rapper Gué Pequeno.
Terzo film dedicato allo spregiudicato e volgarissimo politico calabrese incarnato da Antonio Albanese dopo Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012), Cetto c’è, senza dubbiamente, a ben sette anni di distanza dal secondo capitolo della trilogia, ripropone senza troppa ispirazione i cavalli di battaglia e i tormentoni del personaggio, consolidati da numerose apparizioni televisive e da un posto di riguardo nell’immaginario collettivo. La trovata di fare di Cetto il plenipotenziario di un meridionalissimo regno immaginario sconta però una pochezza cinematografica e d’ispirazione non indifferente: la dimensione favolistica della satira politica non è infatti mai legittimata da scenografie all’altezza e la regia di Giulio Manfredonia, orfana di qualsiasi sospensione dell’incredulità che possa andare oltre la frammentarietà degli sketch, si arrabatta pigramente tra scenette all’acqua di rose e stoccate fuori tempo massimo. In coda al 2019 e in tempi di post-berlusconismo, infatti, la maschera iperrealista di La Qualunque appare ormai particolarmente invecchiata e logora e la confezione non aiuta, a causa di un montaggio pigro e deficitario e di sequenze e snodi poco valorizzati dalla sciatteria generale, che investe tanto le ambientazioni (il comune retto dal figlio di Cetto, Melo, ricreato alla bell’e meglio al Campus X di Tor Vergata a Roma, residenza universitaria) quanto i pallidissimi riferimenti all’attualità, sparuti e circoscritti esclusivamente all’inizio e alla fine del lungometraggio: dalla parrucca bionda di Donald Trump, già scomodata da Christian De Sica in Poveri ma bellissimi (2017) di Fausto Brizzi, all’influenza della comunicazione su web e social per il referendum finale, che arriva quando ormai il film si avvia alla conclusione. L’unica sequenza in cui si sorride più marcatamente, corredata di citazioni napoleoniche, arriva anch’essa troppo tardi. Da registrare anche una trascurabile, inequivocabile e un po’ incomprensibile citazione letterale de La grande bellezza (2013) in un frangente in cui vengono fugacemente inquadrate delle suore. Sui titoli di coda c’è spazio per un momento musicale con Cetto impegnato in un featuring con il rapper Gué Pequeno.
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