Su uno schermo bipartito fluiscono dei frammenti, disposti a coppie di sei, di cui uno solo sonorizzato. Si tratta di piani-sequenza che durano più o meno mezz'ora ciascuno, abitati da personaggi, celebri e meno celebri, del leggendario Chelsea Hotel di New York. Si tratta senza dubbio del più celebre film di Andy Warhol, o per meglio dire di quello che ha resistito meglio degli altri alla prova del tempo e dello scetticismo critico diffuso, sia per l'iconicità che sembra appartenergli di diritto, che per il fascino che emana, ma anche perché, paradossalmente, è una delle pellicole meno oltranziste e più accessibili dell'artista pop. Warhol, infatti, seppur in forma decostruita e serigrafata, riesce a imbastire delle narrazioni concrete, anche se naturalmente non escono dalla presa diretta, dal momento puntuale liberamente sottratto alla vita reale, dall'estemporaneità e dalla suggestione isolata, sia contenutistica che formale (il Vietnam buttato lì per caso, l'aggressione frontale all'immagine operata dallo zoom). Star, personalità ricorrenti del sottobosco warholiano, ma anche individui meno noti: un andirivieni frenetico, che ragiona per salti e sovrapposizioni, dando vita a brandelli audiovisivi volti a rappresentare lo sbandamento di una generazione tramortita e bombardata da stimoli visivi e mediatici: una coazione a ripetere rigorosamente a vuoto, senza peso e senza senso. Warhol come regista è coerentissimo: la sua riflessione sul ruolo dell'arte in un contesto contemporaneo e post-ideologico si traduce in uno stile refrattario a ogni convenzione, ma anche a ogni buon senso: un “puro atto” artistico che però poco ha a che fare con il cinema. Il valore di Chelsea Girls, oggi, è più che altro storico e museale, non certo estetico, perché l'uso dello split screen ha conosciuto, per fortuna, esiti meno sterili e ben più luminosi. La versione originale era di quattro ore, quella ufficiale dura più o meno tre ore e un quarto: sempre e comunque troppe.