Les intranquilles
Les intranquilles
2021
Paesi
Belgio, Francia, Lussemburgo
Genere
Drammatico
Durata
117 min.
Formato
Colore
Regista
Joachim Lafosse
Attori
Leïla Bekhti
Damien Bonnard
Luc Schiltz
Larisa Faber
Gabriel Merz Chammah
Damien (Damien Bonnard) è un pittore, Leïla (Leïla Bekhti) restaura mobili. I due lavorano uno accanto all’altra e si amano di un amore intensissimo, ma condizionato dalla bipolarità di lui, che lo colpisce soprattutto durante l’atto creativo.
Il regista belga Joachim Lafosse si conferma uno dei grandi cantori dei rapporti di coppia nel cinema contemporaneo, capace di trattare con fortissima sensibilità le relazioni coniugali, i problemi e le passioni che anche ne derivano. Cinque anni dopo il bellissimo Dopo l’amore, che raccontava un rapporto post-separazione, si concentra qui su una coppia in apparenza stabile, ma vittima della malattia di lui, un uomo che cerca in tutti i modi di combattere per mantenersi all’interno di un nucleo familiare che sa essere particolarmente complesso da preservare. Attraverso una serie di dialoghi ficcanti e di situazioni coinvolgenti, il film snocciola tutte le sue carte migliori durante la notevolissima parte centrale, riuscendo a mantenere alto il ritmo e l’attenzione dello spettatore. Pur con qualche ridondanza nella parte centrale, il disegno complessivo è toccante, credibile e capace di trasportarci all’interno di un contesto che riusciamo tangibilmente a sentire vicino. Ottimo lavoro dei due interpreti, ben guidati da un regista che è anche un bravissimo direttore di attori. Come spesso gli capita Lafosse si è ispirato alla sua vita reale, in questo caso in particolare alla figura di suo padre, famoso fotografo affetto da sindrome maniaco-depressiva e che nel film è diventato un pittore. Il film è girato, oltre che ambientato, durante la pandemia di Coronavirus del 2020: una cornice tanto credibile quanto solo accennata all’interno del racconto, nei cui margini, solo apparentemente angusti, va a incastrarsi un preciso discorso sulla claustrofobia dei sentimenti e dei corpi chiamati a ospitarli; una prigione primaria e immediatamente opprimente, lei per prima, molto più di ogni implicazione ambientale, familiare e sociale, tutti elementi che si potrebbe essere tentati di sopravvalutare e ritenere maggiormente castranti. Non a caso Lafosse, che è chiaramente un regista dotato di un approccio selvaggio e materialista al melodramma, oltre a mostrarci lo straziante e struggente pervertimento di un nucleo familiare, all’apparenza come tanti ma ostaggio di fatali pulsioni centripete e spossanti, dedica come di consueto una notevole e illuminata attenzione registica ai corpi degli attori e alla superficie dei loro volti ed epidermidi, regalando allo spettatore anche in questo caso delle memorabili scene di ballo che, proprio come quelle di Dopo l’amore, rimangono malinconicamente impresse al termine della visione e non si dimenticano affatto. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2021.
Il regista belga Joachim Lafosse si conferma uno dei grandi cantori dei rapporti di coppia nel cinema contemporaneo, capace di trattare con fortissima sensibilità le relazioni coniugali, i problemi e le passioni che anche ne derivano. Cinque anni dopo il bellissimo Dopo l’amore, che raccontava un rapporto post-separazione, si concentra qui su una coppia in apparenza stabile, ma vittima della malattia di lui, un uomo che cerca in tutti i modi di combattere per mantenersi all’interno di un nucleo familiare che sa essere particolarmente complesso da preservare. Attraverso una serie di dialoghi ficcanti e di situazioni coinvolgenti, il film snocciola tutte le sue carte migliori durante la notevolissima parte centrale, riuscendo a mantenere alto il ritmo e l’attenzione dello spettatore. Pur con qualche ridondanza nella parte centrale, il disegno complessivo è toccante, credibile e capace di trasportarci all’interno di un contesto che riusciamo tangibilmente a sentire vicino. Ottimo lavoro dei due interpreti, ben guidati da un regista che è anche un bravissimo direttore di attori. Come spesso gli capita Lafosse si è ispirato alla sua vita reale, in questo caso in particolare alla figura di suo padre, famoso fotografo affetto da sindrome maniaco-depressiva e che nel film è diventato un pittore. Il film è girato, oltre che ambientato, durante la pandemia di Coronavirus del 2020: una cornice tanto credibile quanto solo accennata all’interno del racconto, nei cui margini, solo apparentemente angusti, va a incastrarsi un preciso discorso sulla claustrofobia dei sentimenti e dei corpi chiamati a ospitarli; una prigione primaria e immediatamente opprimente, lei per prima, molto più di ogni implicazione ambientale, familiare e sociale, tutti elementi che si potrebbe essere tentati di sopravvalutare e ritenere maggiormente castranti. Non a caso Lafosse, che è chiaramente un regista dotato di un approccio selvaggio e materialista al melodramma, oltre a mostrarci lo straziante e struggente pervertimento di un nucleo familiare, all’apparenza come tanti ma ostaggio di fatali pulsioni centripete e spossanti, dedica come di consueto una notevole e illuminata attenzione registica ai corpi degli attori e alla superficie dei loro volti ed epidermidi, regalando allo spettatore anche in questo caso delle memorabili scene di ballo che, proprio come quelle di Dopo l’amore, rimangono malinconicamente impresse al termine della visione e non si dimenticano affatto. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2021.
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