Emir Kusturica incontra Diego Maradona, che si confessa di fronte alla macchina da presa. Lo vediamo tornare sui luoghi della sua infanzia, nella casa del quartiere di Villa Belmiro, ricordare i suoi esordi e i suoi trionfi, dal titolo mondiale agli scudetti vinti con il Napoli. Ma non c'è solo il lato positivo: il campione racconta i suoi problemi di droga, le difficoltà con la famiglia, l'impegno politico, l'obesità e la vita a rischio dopo il ritiro.

Diego Armando Maradona è grande cinema in carne e ossa, ma non necessariamente firmato Emir Kusturica. La principale pecca di un documentario per molti versi pregevole è proprio la presenza dell'ego di chi filma (concetto veicolato sin dal titolo). Il regista cerca di piegare la narrativa agli schemi del proprio cinema e del proprio vissuto, tratteggiando Maradona come se fosse un personaggio di un suo film: metodo francamente fastidioso ed eccessivo, anche perché, quanto a ego ipertrofico, già l'asso argentino ha pochi eguali. Il senso di scarse proporzioni e gratuità è forte, nonostante l'operazione sia un prezioso mezzo non solo per entrare in contatto con uno dei personaggi più affascinanti, ben oltre il calcio, dell'ultimo scorcio di Novecento, ma anche per indagare il profondo solco scavato nell'immaginario dalla sua carriera e dalla mistica che la circonda (clamorose in tal senso le sequenze girate in Argentina durante i riti della Iglesia Maradoniana, ovvero la Chiesa di Maradona). Un'occasione sprecata.