Mektoub, My Love: Intermezzo
Mektoub, My Love: Intermezzo
2019
Paesi
Francia, Italia
Genere
Drammatico
Durata
208 min.
Formato
Colore
Regista
Abdellatif Kechiche
Attori
Shain Boumedine
Ophélie Bau
Salim Kechiouche
Alexia Chardard
Lou Luttiau
Hafsia Herzi
Settembre, 1994. Sulla spiaggia di Sète arriva una nuova ragazza che potrebbe suscitare il desiderio di molti. Intanto, Ophélie (Ophélie Bau) è incinta di Tony (Salim Kechiouche) e deve decidere se tenere il bambino.
Si riparte esattamente da dov’era terminato Mektoub, My Love: Canto uno (2017), straordinario film dal sapore autobiografico con cui Abdellatif Kechiche aggiungeva un nuovo fondamentale tassello alla sua grande filmografia: il timido Amin fotografa la bella Charlotte in una breve sequenza che lascerà poi spazio a due scene lunghissime (prima in spiaggia e poi in discoteca). Il regista franco-tunisino dilata moltissimo le sequenze come da sua abitudine, facendo entrare lo spettatore nelle dinamiche relazionali del gruppo protagonista, dai fitti dialoghi alle danze sfrenate. Kechiche continua a filmare il flusso della vita con uno stile vibrante e di grande energia, che si concede anche un prolungato “intermezzo hard” con un cunnilingus di circa 12 minuti che ha scandalizzato molti: la scena, però, più che eccitante è un momento di grande disperazione, così come buona parte della pellicola che porta con sé riflessioni e spunti profondamente malinconici, del tutto in linea con quella fine dell’estate, a cui fanno più volte riferimento i personaggi in scena, immersi in una danza infinita e martellante. Ancora più del lungometraggio precedente, questo secondo capitolo ha toni anti-narrativi (e quasi sperimentali) che potrebbero anche infastidire, ma tre le pieghe di una drammaturgia che punta sulla reiterazione dei gesti e delle parole, c’è spazio per ragionamenti di grande rilevanza sulla giovinezza, sulle relazioni umane e su una stagione in procinto di terminare. Qualcuno ha desideri per entrare in una nuova fase adulta della propria esistenza, altri invece non vogliono crescere e proseguono nel compiere i medesimi gesti così da restare cristallizzati in un momento. Amin, ancora una volta, osserva tutto, come un regista dentro al film e un vero e proprio alter ego di Kechiche, nel quale l’autore si rispecchia in maniera totale, limitandosi a osservare la vita e a sublimarla attraverso la sua vorace macchina da presa anziché viverla dal di dentro, calato in flusso inarrestabile di godimento ma anche a margine di tale orgia dei sensi, nella maniera più struggente e impalpabile possibile. Con un po’ di pazienza, un’opera emozionante da cui, se si riesce a entrare, non si vuole poi più uscire e si vorrebbe non finisse mai. Di grandissima potenza pittorica e malinconica anche il finale, immerso nella dolcezza di un’alba spietata e proiettato, inevitabilmente, verso il prosieguo della narrazione alla quale il regista dedicherà con buona probabilità i suoi soliti sforzi sovrumani al montaggio. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2019.
Si riparte esattamente da dov’era terminato Mektoub, My Love: Canto uno (2017), straordinario film dal sapore autobiografico con cui Abdellatif Kechiche aggiungeva un nuovo fondamentale tassello alla sua grande filmografia: il timido Amin fotografa la bella Charlotte in una breve sequenza che lascerà poi spazio a due scene lunghissime (prima in spiaggia e poi in discoteca). Il regista franco-tunisino dilata moltissimo le sequenze come da sua abitudine, facendo entrare lo spettatore nelle dinamiche relazionali del gruppo protagonista, dai fitti dialoghi alle danze sfrenate. Kechiche continua a filmare il flusso della vita con uno stile vibrante e di grande energia, che si concede anche un prolungato “intermezzo hard” con un cunnilingus di circa 12 minuti che ha scandalizzato molti: la scena, però, più che eccitante è un momento di grande disperazione, così come buona parte della pellicola che porta con sé riflessioni e spunti profondamente malinconici, del tutto in linea con quella fine dell’estate, a cui fanno più volte riferimento i personaggi in scena, immersi in una danza infinita e martellante. Ancora più del lungometraggio precedente, questo secondo capitolo ha toni anti-narrativi (e quasi sperimentali) che potrebbero anche infastidire, ma tre le pieghe di una drammaturgia che punta sulla reiterazione dei gesti e delle parole, c’è spazio per ragionamenti di grande rilevanza sulla giovinezza, sulle relazioni umane e su una stagione in procinto di terminare. Qualcuno ha desideri per entrare in una nuova fase adulta della propria esistenza, altri invece non vogliono crescere e proseguono nel compiere i medesimi gesti così da restare cristallizzati in un momento. Amin, ancora una volta, osserva tutto, come un regista dentro al film e un vero e proprio alter ego di Kechiche, nel quale l’autore si rispecchia in maniera totale, limitandosi a osservare la vita e a sublimarla attraverso la sua vorace macchina da presa anziché viverla dal di dentro, calato in flusso inarrestabile di godimento ma anche a margine di tale orgia dei sensi, nella maniera più struggente e impalpabile possibile. Con un po’ di pazienza, un’opera emozionante da cui, se si riesce a entrare, non si vuole poi più uscire e si vorrebbe non finisse mai. Di grandissima potenza pittorica e malinconica anche il finale, immerso nella dolcezza di un’alba spietata e proiettato, inevitabilmente, verso il prosieguo della narrazione alla quale il regista dedicherà con buona probabilità i suoi soliti sforzi sovrumani al montaggio. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2019.
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