Follia e amore
Feng ai
2013
Paesi
Giappone, Francia, Hong Kong
Genere
Documentario
Durata
227 min.
Formato
Colore
Regista
Wang Bing
In un manicomio dello Yunnan, regione della Cina situata nel Sud-ovest della nazione, cinquanta uomini vivono in condizioni totalmente disumane, ma molti di loro sono tutt'altro che pazzi. Si tratta, piuttosto, di perseguitati per via delle loro convinzioni politiche, bollati come folli perché scomodi.
Wang Bing non è mai stato un regista conciliante e ha sempre mostrato gli angoli più rimossi e repellenti della Cina contemporanea, non lesinando dettagli miserevoli, squarci di assoluta povertà e totale degrado al limite dell'umano. In questo caso, però, il documentarista cinese si è spinto oltre la liceità stessa dell'atto cinematografico, insinuandosi con la sua macchina da presa nei meandri di un ospedale psichiatrico i cui ricoverati, più simili a prigionieri di guerra, subiscono umiliazioni igieniche e morali, latrano come animali abbandonati, piangono come reietti dimenticati da Dio e dal mondo quali sono. Una visione destabilizzante, un gesto cinematografico gigantesco e definitivo, in cui l'apice dell'orrore coincide con la massima tensione poetica, a riprova della grandezza di un cineasta che dosa con maestria gli ossimori e firma di fatto il suo capolavoro. 227 minuti di discesa agli inferi senza ritorno, in cui lo spettatore è costretto a sbarrare gli occhi e a fissare ogni tipo di scarto e di bassezza, di rifiuto producibile dall'uomo e di degradazione. Un procedimento che potrebbe sembrare ricattatorio e immorale, sadico e ripugnante, ma che nelle mani sapienti e illuminate di Wang Bing, forte della sua inattaccabile impassibilità, diventa un viatico necessario, un banco di prova indispensabile per vedere meglio e capire di più. Persino le famiglie dei carcerati – perché di questo si tratta – sembrano non volerne sapere più nulla dei loro congiunti, mentre tra le sbarre filtrano bisogni corporali e rantoli accennati (d'amore? di morte?) che preludono a sentimenti impossibili da materializzare. Devastante, potentissimo, necessario: un pugno nello stomaco che fa digrignare i denti e, al contempo, rigare il volto di lacrime. L'interrogativo irrisolto alla base del film è di quelli da non dormirci più la notte: le varie persone che impariamo a conoscere durante la pellicola erano matti già prima, o sono diventati pazzi al seguito del loro internamento? Domanda lecita, la cui risposta pare purtroppo piuttosto evidente. Le vette di Titicut Follies (1967) di Wiseman non sono lontane, anzi. Presentato a Venezia nel 2013 nella sezione Orizzonti.
Wang Bing non è mai stato un regista conciliante e ha sempre mostrato gli angoli più rimossi e repellenti della Cina contemporanea, non lesinando dettagli miserevoli, squarci di assoluta povertà e totale degrado al limite dell'umano. In questo caso, però, il documentarista cinese si è spinto oltre la liceità stessa dell'atto cinematografico, insinuandosi con la sua macchina da presa nei meandri di un ospedale psichiatrico i cui ricoverati, più simili a prigionieri di guerra, subiscono umiliazioni igieniche e morali, latrano come animali abbandonati, piangono come reietti dimenticati da Dio e dal mondo quali sono. Una visione destabilizzante, un gesto cinematografico gigantesco e definitivo, in cui l'apice dell'orrore coincide con la massima tensione poetica, a riprova della grandezza di un cineasta che dosa con maestria gli ossimori e firma di fatto il suo capolavoro. 227 minuti di discesa agli inferi senza ritorno, in cui lo spettatore è costretto a sbarrare gli occhi e a fissare ogni tipo di scarto e di bassezza, di rifiuto producibile dall'uomo e di degradazione. Un procedimento che potrebbe sembrare ricattatorio e immorale, sadico e ripugnante, ma che nelle mani sapienti e illuminate di Wang Bing, forte della sua inattaccabile impassibilità, diventa un viatico necessario, un banco di prova indispensabile per vedere meglio e capire di più. Persino le famiglie dei carcerati – perché di questo si tratta – sembrano non volerne sapere più nulla dei loro congiunti, mentre tra le sbarre filtrano bisogni corporali e rantoli accennati (d'amore? di morte?) che preludono a sentimenti impossibili da materializzare. Devastante, potentissimo, necessario: un pugno nello stomaco che fa digrignare i denti e, al contempo, rigare il volto di lacrime. L'interrogativo irrisolto alla base del film è di quelli da non dormirci più la notte: le varie persone che impariamo a conoscere durante la pellicola erano matti già prima, o sono diventati pazzi al seguito del loro internamento? Domanda lecita, la cui risposta pare purtroppo piuttosto evidente. Le vette di Titicut Follies (1967) di Wiseman non sono lontane, anzi. Presentato a Venezia nel 2013 nella sezione Orizzonti.
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