L'ultimo samurai
Jôi-uchi: Hairyô tsuma shimatsu
1967
Paese
Giappone
Generi
Azione, Drammatico
Durata
128 min.
Formato
Bianco e Nero
Regista
Masaki Kobayashi
Attori
Toshirō Mifune
Yōko Tsukasa
Gō Katō
Tatsuyoshi Ehara
Tatsuya Nakadai
XVIII secolo. Dopo una vita trascorsa a obbedire agli ordini dei suoi superiori e a mettere la prosperità del suo clan al primo posto, il valoroso samurai Isaburo (Toshirō Mifune) viene costretto a far sposare suo figlio Yogoro (Gō Katō) con una concubina (Yōko Tsukasa) recentemente ripudiata dal daimyō Matsudaira (Tatsuo Matsumura). Nonostante le premesse, il matrimonio si rivela un successo: i due giovani si innamorano e ben presto hanno un figlio. Quando però il daimyō Matsudaira rivuole indietro la sua vecchia concubina, Isaburo si ribella, pur sapendo che il suo gesto comporterà la distruzione della sua famiglia. Reduce dall'enorme successo di Kwaidan (1964), l'elegante film di fantasmi premiato a Cannes e nominato all'Oscar per il miglior film straniero, Masaki Kobayashi firma un possente jidai-geki che per similarità di temi forma un dittico ideale con il suo capolavoro Harakiri (1962). Sceneggiato come quest'ultimo da Shinobu Hashimoto a partire da un romanzo di Yasuhiko Takiguchi, il film mette in scena, attraverso il racconto di una solitaria ribellione privata, il titanico scontro fra uomo e potere in una società ingiusta e disumana (quella feudale del XVIII secolo, ma in Kobayashi il discorso si estende sempre anche alla contemporaneità) che reprime la libertà — e conseguentemente la felicità — individuale attraverso rigide regole, consuetudini e gerarchie con il solo scopo di perpetuare l'arbitrio dei potenti. Ma se in Harakiri il ronin Tsugumo poteva almeno lanciare la sua sfida al potere in maniera frontale e diretta, smascherando l'ipocrisia dell'intendente Saito — e dell'intera classe dei samurai — all'interno delle sue stesse stanze, qui il samurai Isaburo si trova a combattere contro un potere distante e invisibile, fisicamente arroccato nella propria reggia e radicato in maniera profonda a ogni livello della società (istituzione familiare compresa). Destinato a essere cancellato dalla memoria della Storia, scritta e tramandata dalle classi dominanti, il gesto di ribellione di Isaburo (ma anche quello del figlio e della nuora legati fino alla fine da un amore incrollabile) verrà in ultima battuta memorizzato e salvato dal cinema di Kobayashi: qualcosa di simile a quanto era già accaduto in Harakiri dove nelle scene finali la macchina da presa si soffermava sulle tracce del sangue copiosamente versato, impedendone così la definitiva rimozione da parte dei funzionari del signore. Squarciando dall'interno il velo di un ordine tutto formale e apparente — espresso attraverso una messa in scena austera e rigorosa e una composizione delle inquadrature di precisione geometrica — Kobayashi lancia un autentico grido di libertà contro le oppressioni del potere costituito. Assolutamente da riscoprire. Presentato alla Mostra di Venezia 1967, dove ha vinto il premio FIPRESCI.
Maximal Interjector
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