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Il mistero dell'estate: la classifica dei nostri 10 film estivi ideali

In Francia, in questi giorni, è uscito il nuovo film di François Ozon, Été 85, romanzo di formazione ambientato nella Normandia di metà anni ’80 durante le vacanze estive di due ragazzi.
In questa strana e interlocutoria estate italiana, alla quale mancano - quest’anno più che mai - le uscite di peso al cinema e a sopravvivere affannosamente c’è solo qualche arena estiva, vogliamo comunque farvi compagnia proponendovi i nostri 10 ideali “film estivi” che hanno fatto leva sulle possibilità narrative e poetiche che questa stagione dell’anno (e del cuore) porta inevitabilmente con sé.

Monica e il desiderio, Ingmar Bergman (1953)


Monika (Harriet Andersson) e Harry (Lars Ekborg) si conoscono all'interno di un caffè. Oppressi dal lavoro e dalle difficili condizioni di vita in città, decidono di inseguire un sogno: lasciare tutto per scappare su un'isola. Ma il ritorno alla realtà si rivelerà brutale. Acme della prima fase dell'opera di Ingmar Bergman, il film rivela quella libertà di linguaggio e quell'idea di cinema tutto interiore che avrebbero poi contraddistinto i successivi lavori del regista. L'autore svedese architetta un dramma in tre atti, doloroso proprio in virtù di quell'asfittico senso d'inevitabilità che riesce a trasmettere. La felicità è la chimera di un'estate, l'illusione di fuga da un mondo ordinario che finisce sempre per riaffacciarsi. 

American Graffiti, George Lucas (1973)


Per Curt (Richard Dreyfuss) e Steve (Ron Howard) è l'ultima notte nella loro piccola città, prima della partenza per il college: con loro gli amici John (Paul Le Mat) e Terry (Charles Martin Smith). Sarà un susseguirsi di disavventure, amori e divertimenti, per non pensare troppo all'età adulta che è alle porte. «Where were you in ‘62?» recitava il manifesto originale dell'opera seconda di George Lucas, prodotta da Francis Ford Coppola e rapidamente divenuta un cult. L'unica regia di Lucas che non transita nei territori della fantascienza è un adorabile viaggio nostalgico nell'età dell'innocenza: quella dei giovani protagonisti e quella dell'America, che di lì a un soffio dovrà fare i conti con l'assassinio Kennedy e l'inferno del Vietnam. In questo ritratto spassoso ma al contempo dolceamaro, dal sapore autobiografico, il futuro creatore di Star Wars individua quegli archetipi che segneranno le commedie generazionali a venire: dai personaggi – l'intellettuale indeciso Curt, il bravo ragazzo Steve, lo “sfigato” Terry, il “bello e dannato” John – a imprescindibili topoi come la corsa in macchina, il drive in o la prom night (un'iconografia poi riciclata dalla serie tv Happy Days, dove addirittura Ron Howard interpreterà un ruolo molto simile a quello del film). 

Lo squalo, Steven Spielberg (1975)


A ridosso della stagione balneare, la placida routine della cittadina costiera di Amity viene sconvolta dalle fameliche incursioni di uno squalo bianco gigante. Il capo della polizia locale (Roy Scheider), un giovane oceanografo (Richard Dreyfuss) e un vecchio marinaio (Robert Shaw) si incaricano di eliminare il mostro marino in una missione che metterà a repentaglio la loro stessa vita. Tra i maggiori successi commerciali della storia del cinema, Lo squalo (letteralmente “Fauci” secondo il titolo originale) è il film che ha segnato la definitiva consacrazione internazionale per il regista Steven Spielberg che con questo suo terzo lungometraggio dà ulteriore conferma di possedere una invidiabile padronanza dei mezzi espressivi. Dopo Duel (1971), di cui riprende i perfetti meccanismi di costruzione della paura di una minaccia invisibile, il regista costruisce un avvincente thriller con pochi ma essenziali elementi, restituendo il senso di inquietudine di una minaccia incombente, senza mai concedere cali di tensione. Debitore verso il cinema di Alfred Hitchcock sotto diversi aspetti, dal montaggio ai movimenti di macchina, alla celebre colonna sonora (firmata da John Williams) che cadenza i momenti di massimo terrore e preannuncia il pericolo prossimo. 

Un mercoledì da leoni, John Milius (1978)


Matt (Jan-Michel Vincent), Jack (William Katt) e Leroy (Gary Busey) sono tre amici fraterni che passano la giovinezza praticando il surf sulle spiagge della California. L'età adulta, però, incombe, e con lei lo spettro della guerra in Vietnam e la fine della spensieratezza. Ognuno di loro dovrà fare i conti con le responsabilità e l'inesorabile passare del tempo. Dodici anni di vita e di storia americana sono racchiusi in quattro capitoli corrispondenti ad altrettanti grandi mareggiate (1962, 1965, 1968, 1974): a ogni onda, calare la tavola in mare è il modo migliore per dimenticare un attimo che la vita vera è lì, a presentarti il conto. Il terzo film di John Milius, forse il suo migliore in assoluto, è il più classico e profondamente americano dei coming of age, dolente chiusura di un poker perfetto formato con L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich (1971), American Graffiti di George Lucas e Mean Streets di Martin Scorsese (entrambi del 1973). 

Pauline alla spiaggia, Eric Rohmer (1983)


Sul finire dell'estate, l'attraente Marion (Arielle Dombasle), appena uscita da un infelice matrimonio, e la nipote quindicenne Pauline (Amanda Langlet) trascorrono una vacanza in Normandia all'insegna di un reciproco confronto sull'amore, tra incontri galanti e riflessioni sul proprio rapporto con l'altro sesso. Un piccolo grande film attraversato dalla grazia che, sulla base di un canovaccio narrativo tutt'altro che originale, mette in scena una storia di formazione giocata sul doppio binario dell'adolescenza e dell'età adulta. Situazioni straordinarie nella loro semplicità, due interpreti meravigliose circindate da personaggi secondari ben calibrati (l'aitante istruttore di windsurf interpretato da Pascal Greggory, l'etnologo divorziato di Féodor Atkine) e una giocosa atmosfera balneare di taglio naturalistico che diventa complemento ideale delle consuete ambientazioni parigine del cinema rohmeriano. 

Io ballo da sola, Bernardo Bertolucci (1996) 


La diciannovenne americana Lucy (Liv Tyler) viene mandata dal padre a trascorrere un periodo di vacanza in casa di amici sulle colline nei pressi di Siena. Lucy ha da poco superato il suicidio della madre e si trova immediatamente a suo agio nel nuovo ambiente, facendo amicizia con Alex (Jeremy Irons), un drammaturgo malato di cancro, cui la ragazza confessa di essere ancora vergine e di essere alla ricerca del suo vero padre. Dopo quindici anni da La tragedia di un uomo ridicolo (1981), Bernardo Bertolucci torna a girare in Italia e lo fa con una piccola produzione. Un racconto di formazione ed educazione sentimentale in cui il sesso rappresenta pienamente la gioia di vivere e di abbandonarsi alle proprie passioni e la sua scoperta è un passaggio cruciale e indispensabile nel processo di maturazione di ciascun individuo. Un'opera al contempo malinconica e ottimista che fotografa un mondo che si va a spegnere (esemplare in tal senso l'indugiare di Bertolucci sui tramonti), una generazione decadente funestata dalla malattia e dall'incomunicabilità, e che sta per essere spodestato dall'avanzare delle nuove generazioni, dallo sbocciare di una giovinezza genuina e vitale che scaccia il grigiore dei vari passati individuali contraddittori e dolorosi.

L'heure d'été, Olivier Assayas (2008)


I figli Frédéric (Charles Berling), Adrienne (Juliette Binoche) e Jérémie (Jérémie Renier) sono immersi nei festeggiamenti per i settancinque anni della madre Hélène (Edith Scob), una donna forte ed elegante che ha consacrato tutta la sua esistenza allo zio, il pittore Paul Berthier. Olivier Assayas ha spesso posto, al centro della sua poetica, il tempo e le sue implicazioni, lavorando sulla nostalgia e sul rimpianto in modo stimolante e non banale, analizzandone l'origine e le ricadute (tutte cose molto estive, a conti fatti, perché l’estate è la stagione dell’animo più effimera e fragile di tutte, ma anche la più fulminea, vivida e d’impatto sul fronte delle emozioni forti). Ne L'heure d'été tale aspetto è sviluppato in maniera impeccabile e fascinosa, con una narrazione avvolgente e sfaccettata, che concede il giusto spazio a una cura formale densa di significato e che prende corpo attraverso le riflessioni legate al passato come luogo depositario della memoria, come archivio denso di sollecitazioni. 

Adventurland, Greg Mottola (2009)


Pennsylvania, 1987. A causa di problemi finanziari, il giovane James (Jesse Eisenberg) è costretto a rinunciare al viaggio post diploma in Europa, ritrovandosi a lavorare in un luna park della sua città per racimolare qualche soldo. Qui conosce Emily (Kristen Stewart) e altri ragazzi con cui condividerà le gioie e i dolori di un'estate memorabile. Dopo il demenziale Suxbad – Tre menti sopra il pelo (2007), Greg Mottola scrive e dirige una nuova pellicola sugli adolescenti, ma adottando un registro del tutto differente. Adventureland, infatti, è un'opera più intima e toccante, dal fortissimo sapore nostalgico: l'ambientazione, le musiche, le citazioni riconducono a un periodo chiaramente importante per il regista, capace di rispolverare con una graditissima sincerità alcuni elementi cardine degli anni '80, senza però lasciarsi andare a banali stereotipi. Pur non dando vita a niente di nuovo o di troppo sorprendente, è una pellicola godibile, decisamente superiore alla media dei teen movie del nuovo millennio. E Kristen Stewart è la musa perfetta di ogni fuggevole e impalpabile amore estivo che si rispetti. 

Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore, Wes Anderson (2012)


Dopo essersi conosciuti per puro caso a una rappresentazione teatrale della storia di Noè e della sua arca, il dodicenne Sam (Jared Gilman) e la coetanea Suzy (Kara Hayward) stringono un rapporto epistolare che li porta a innamorarsi e a pianificare una fuga d'amore insieme. Fin dal suo esordio Un colpo da dilettanti (1996), l'amore e il romanticismo hanno sempre avuto un posto speciale nelle storie raccontate da Wes Anderson. In Moonrise Kingdom questo aspetto diventa il principale motore delle vicende di tutti i personaggi coinvolti, dal momento che il film ruota intorno alla scoperta dell'amore nella sua forma più pura e semplice (anche se non mancano ammiccamenti sessuali più o meno espliciti) da parte di due pre-adolescenti, stanchi della vita che li circonda e desiderosi solo di trovare un posto tutto per loro nel mondo, il più possibile privato e incontaminato. Anche Wes Anderson, a questo giro, si è concesso il suo “film estivo” perfetto. 

Chiamami col tuo nome, Luca Guadagnino (2017)


Estate 1983. Elio (Timothée Chalamet), timido diciassettenne americano con la passione per la musica, sta trascorrendo le vacanze nella tenuta di famiglia insieme ai propri genitori, nella campagna lombarda. L'arrivo nella dimora di Oliver (Armie Hammer), affascinante studente ventiquattrenne, coincide con l'inizio di una amicizia sempre più intima che porterà i due a innamorarsi l'uno dell’altro. Ispirato all'omonimo romanzo (2007) di André Aciman, il quinto lungometraggio di finzione di Luca Guadagnino è un lineare racconto di formazione che scivola in maniera pudica nell'educazione sessuale del giovane protagonista. Un film libero e spontaneo, che trova nella placida calma dell'assolato paesaggio agreste lo scenario ideale per affrontare una storia di fertile semplicità segnata da un significativo gusto per il dettaglio. Questo delizioso coming of age, che può ricordare il cinema di Eric Rohmer, è valorizzato dalla scelta di ambientare la vicenda in un preciso contesto storico-culturale, con la politica che appare dagli schermi della TV, da una semplice immagine colta con naturalezza (quella di Mussolini) o da pittoreschi discorsi a tavola. L'amore diventa espressione di uno stato d'animo che vuole e deve rifiutare il pregiudizio e la repressione dei sentimenti, come se il "fantasma della libertà", suggerito anche dal riferimento al film di Buñuel, si dovesse fare largo dall'effimera spensieratezza degli anni '80, costantemente velata di malinconia.

Bonus track: L'ombrellone, Dino Risi (1965)


L'ingegner Enrico Marletti (Enrico Maria Salerno) parte da un'estiva Roma ormai deserta, per raggiungere al mare la moglie Giuliana (Sandra Milo). Il soggiorno sarà tutt'altro che piacevole. Commedia grottesca firmata Dino Risi, L'ombrellone è più precisamente una fotografia satura e sovraesposta dell'Italia del boom. Il regista cerca di vedere attraverso i colorati occhiali del protagonista – un malinconico, irrequieto e bravissimo Enrico Maria Salerno – tutta l'inquietudine nascosta dietro la patina godereccia di una società impreparata ad affrontare così tanta abbondanza. Attraverso inquadrature iper-colorate e stracolme di soggetti, il regista imbocca un altro tipo di commedia (per lui inedito), caciarona e disturbante, in grado di sfociare nella solita malinconia ma grazie a situazione diverse. Una comicità frutto dell'abbondanza e della confusione, accompagnata da una colonna sonora volutamente popolare. 

Davide Stanzione

Maximal Interjector
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