A pochi giorni dalla fine del Festival di Berlino, che ha visto premiato con l’Orso d’oro There is No Evil di Mohammad Rasoulof, ripercorriamo la storia della Berlinale andando a suggerirvi quelli che sono stati i 10 migliori film vincitori del festival.
Cenerentola (1950) di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske. La protagonista femminile immaginata da Walt Disney risulta essere un personaggio molto moderno: pragmatica e facilmente irritabile, Cenerentola è una donna malinconica eppure grintosa, caparbia e intelligente, conscia di poter di potersi guadagnare un futuro migliore. Potentissimo dal punto di vista narrativo, ma anche dotato di una confezione visiva di pregevole fattura.
Vite vendute (1953) di Henri-Georges Clouzot. Sferzante critica al sistema capitalistico e a una natura umana irrimediabilmente corrotta dal male. I personaggi che ci presenta Clouzot sono sfiduciati nei confronti della vita e disposti a qualsiasi cosa, anche a morire, pur di assaporare l’effimero sapore di un riscatto a loro lungamente negato.
Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman. Capolavoro sul tempo del regista svedese. L’opera si configura come un road movie ambientato nella mente del protagonista che si ritrova a fare un bilancio della propria esistenza, dovendo quindi inevitabilmente fare i conti con le conseguenze di una vita anaffettiva e socialmente misera. La pellicola, una delle vette degli anni '50, è stato il maggior successo commerciale di Bergman e uno dei suoi lavori più premiati.
La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet. Esordio al cinema di Lumet che costruisce una pellicola in cui, grazie alla particolarmente riuscita atmosfera claustrofobica, emergono tutte le doti del giovane autore. La tensione si raggiunge giocando sui piani, sull’incrociarsi di sguardi e opinioni di uomini identificati solo con dei numeri, eppure caratterizzati da un egregio approfondimento psicologico che emerge dai loro atteggiamenti e dal mutare delle loro opinioni nel corso della storia.
La notte (1961) di Michelangelo Antonioni. Secondo capitolo della "trilogia dell'incomunicabilità". La poetica intellettuale del regista si fa qui ancora più rarefatta e l'indagine dei sentimenti assume i tratti dell'apologo metafisico, affascinante nel suo abbandonarsi a soluzioni imperscrutabili.
Cul-de-sac (1966) di Roman Polanski. Opera dai tratti surrealisti, una corrosiva satira sul rapporto tra sessi (destinato sempre e comunque, secondo il regista, al collasso e all'annullamento), inserti demenziali che conducono inaspettatamente alla tragedia, tratteggiata quasi come una casuale anomalia.
La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick. Terza pellicola di Malick che arriva dopo una pausa di riflessione durata vent’anni. Il film utilizza lo sfondo della seconda guerra mondiale per riflettere sul senso dell’esistenza, sulla cieca brutalità dell’uomo e sull’assurdità della guerra. Un'opera complessa e struggente, profonda e memorabile, capace di parlare con uguale intensità agli occhi, alla mente e al cuore dello spettatore.
Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson. Racconto sulle miserie umane, sulla sofferenza e l’inadeguatezza di fronte ai molteplici volti del dolore. La regia è frenetica, inebriante e sempre funzionale, in grado di mantenere costantemente alto il ritmo, malgrado l'imponente durata.
La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki. Impressionante affresco che affonda le proprie radici nella tradizione folkloristica giapponese e che, allo stesso tempo, incasella un enorme numero di riferimenti anche alla cultura occidentale (evidente dalle suggestioni visive che rimandano ad Alice nel paese delle meraviglie o Il mago di Oz). I personaggi divenuti ormai iconici sono innumerevoli: dagli spiritelli del carbone al divoratore compulsivo e “senza volto”.
Una separazione (2011) di Asghar Farhadi. Film che porta alla consacrazione internazionale il regista iraniano. Sotto la superficie del dramma intimista ribolle una lucida analisi sociale della repubblica islamica; eppure, al tempo stesso, le emozioni e gli stati d'animo dei personaggi sono talmente universali che l'identificazione scatta immediata a ogni latitudine.
Cenerentola (1950) di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske. La protagonista femminile immaginata da Walt Disney risulta essere un personaggio molto moderno: pragmatica e facilmente irritabile, Cenerentola è una donna malinconica eppure grintosa, caparbia e intelligente, conscia di poter di potersi guadagnare un futuro migliore. Potentissimo dal punto di vista narrativo, ma anche dotato di una confezione visiva di pregevole fattura.
Vite vendute (1953) di Henri-Georges Clouzot. Sferzante critica al sistema capitalistico e a una natura umana irrimediabilmente corrotta dal male. I personaggi che ci presenta Clouzot sono sfiduciati nei confronti della vita e disposti a qualsiasi cosa, anche a morire, pur di assaporare l’effimero sapore di un riscatto a loro lungamente negato.
Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman. Capolavoro sul tempo del regista svedese. L’opera si configura come un road movie ambientato nella mente del protagonista che si ritrova a fare un bilancio della propria esistenza, dovendo quindi inevitabilmente fare i conti con le conseguenze di una vita anaffettiva e socialmente misera. La pellicola, una delle vette degli anni '50, è stato il maggior successo commerciale di Bergman e uno dei suoi lavori più premiati.
La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet. Esordio al cinema di Lumet che costruisce una pellicola in cui, grazie alla particolarmente riuscita atmosfera claustrofobica, emergono tutte le doti del giovane autore. La tensione si raggiunge giocando sui piani, sull’incrociarsi di sguardi e opinioni di uomini identificati solo con dei numeri, eppure caratterizzati da un egregio approfondimento psicologico che emerge dai loro atteggiamenti e dal mutare delle loro opinioni nel corso della storia.
La notte (1961) di Michelangelo Antonioni. Secondo capitolo della "trilogia dell'incomunicabilità". La poetica intellettuale del regista si fa qui ancora più rarefatta e l'indagine dei sentimenti assume i tratti dell'apologo metafisico, affascinante nel suo abbandonarsi a soluzioni imperscrutabili.
Cul-de-sac (1966) di Roman Polanski. Opera dai tratti surrealisti, una corrosiva satira sul rapporto tra sessi (destinato sempre e comunque, secondo il regista, al collasso e all'annullamento), inserti demenziali che conducono inaspettatamente alla tragedia, tratteggiata quasi come una casuale anomalia.
La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick. Terza pellicola di Malick che arriva dopo una pausa di riflessione durata vent’anni. Il film utilizza lo sfondo della seconda guerra mondiale per riflettere sul senso dell’esistenza, sulla cieca brutalità dell’uomo e sull’assurdità della guerra. Un'opera complessa e struggente, profonda e memorabile, capace di parlare con uguale intensità agli occhi, alla mente e al cuore dello spettatore.
Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson. Racconto sulle miserie umane, sulla sofferenza e l’inadeguatezza di fronte ai molteplici volti del dolore. La regia è frenetica, inebriante e sempre funzionale, in grado di mantenere costantemente alto il ritmo, malgrado l'imponente durata.
La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki. Impressionante affresco che affonda le proprie radici nella tradizione folkloristica giapponese e che, allo stesso tempo, incasella un enorme numero di riferimenti anche alla cultura occidentale (evidente dalle suggestioni visive che rimandano ad Alice nel paese delle meraviglie o Il mago di Oz). I personaggi divenuti ormai iconici sono innumerevoli: dagli spiritelli del carbone al divoratore compulsivo e “senza volto”.
Una separazione (2011) di Asghar Farhadi. Film che porta alla consacrazione internazionale il regista iraniano. Sotto la superficie del dramma intimista ribolle una lucida analisi sociale della repubblica islamica; eppure, al tempo stesso, le emozioni e gli stati d'animo dei personaggi sono talmente universali che l'identificazione scatta immediata a ogni latitudine.