«Chi si scandalizza è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato.» (Pier Paolo Pasolini)
Cinema e scandalo: un binomio piuttosto frequente nel corso dei decenni. Dai grandi classici ai film minori, sono state molte le opere che hanno segnato la storia della settima arte, suscitando scalpore nel loro esordio in sala, a volte venendo ostracizzati, altre guadagnandosi lo status di cult assoluti.
In occasione del nostro workshop Scandalo al cinema (https://bit.ly/3a88lNL), una panoramica su alcuni dei (molti) film che hanno fatto più discutere!
A Serbian Film (2010) di Srđan Spasojević
Un calcolato, agghiacciante e affatto salutare pugno nello stomaco, strutturato dall'esordiente Srđan Spasojević (anche sceneggiatore con Aleksandar Radivojević) per tentare di veicolare lo stallo della Serbia («Tutta la fottuta nazione non è altro che un merdoso asilo»), paese violentato da conflitti intestini e da un dispotico potere precostituito. Assolutamente insostenibile la sequela di nefandezze (masturbazioni, fellatio, percosse, tendenze pedofile, decapitazioni, fino all'agghiacciante e stomachevole stupro neonatale): un cinema impietoso e indifferente, il cui intento primario è spingersi oltre il rappresentabile. Prevedibili polemiche e ovvia messa al bando in parecchi stati.
Nymph()maniac, Vol. I e II (2013) di Lars von Trier
Annunciato come film scandalo, accompagnato da un battage pubblicitario senza precedenti (almeno per il cinema europeo) e diviso in due distinti volumi, Nymph()maniac si è rivelato il classico topolino partorito dalla montagna. Lars von Trier, da consumato e impareggiabile promotore di se stesso, ha creato grande attesa e curiosità dietro questo progetto: il risultato, tra simbolismi telefonati, sfoggi di cultura gratuiti e copiose scene di sesso (tra l'altro meno invadenti e scabrose di quanto si potesse inizialmente preventivare), è fondamentalmente innocuo e didascalico. Inevitabili controversie: tanto rumore per nulla.
Raw – Una cruda verità (2016) di Julia Ducournau
Esordio al lungometraggio per Julia Ducournau, classe 1983, che pare ispirarsi, per il suo Raw (letteralmente, “crudo”), alla corrente del nuovo cinema horror francese, con uno sguardo alla “poetica della carne” tipicamente cronenberghiana. Il risultato è glaciale e respingente nella sua assoluta coerenza: una metafora di grande potenza visiva sulla transizione all'età adulta che si fa vero e proprio martirio fisico, il tutto connesso all'iniziazione sessuale di un'adolescente la quale sembra far proprio il motto del microcosmo (e quindi della società) che la circonda, fagocitare tutto e tutti, anche se stessi. A tratti quasi insostenibile nella sua sgradevolezza: scandalo annunciato, con annessi svenimenti in sala durante le proiezioni a Cannes e Toronto.
Kapò (1959) di Gillo Pontecorvo
Opera seconda di Gillo Pontecorvo a partire da un soggetto firmato da Franco Solinas. Illustrazione di un percorso di caduta e redenzione di una giovane ebrea che cercando di sopravvivere a tutti i costi non si fa scrupoli a usare l'inganno, la sopraffazione e la crudeltà gratuita. Grande successo di pubblico ma anche grandi critiche fin dalla prima proiezione alla Mostra di Venezia: celeberrima la stroncatura dell'allora critico (e futuro regista) dei Cahiers du Cinéma, Jacques Rivette, che accusò il film di abiezione per aver voluto spettacolarizzare la morte, citando la scelta di usare una carrellata in avanti per mostrare il suicidio del personaggio di Emmanuelle Riva.
Totò che visse due volte (1998) di Daniele Ciprì e Franco Maresco
Pochi film nella storia del cinema italiano hanno conosciuto un destino analogo a quello toccato in sorte all'opera seconda di Ciprì e Maresco, bannato dalla commissione censura per vilipendio della religione cattolica. Totò che visse due volte è, al di là di tutto, un film maledetto e ancora oggi agonizzante nelle sue stesse traversie, simbolo di un ostruzionismo, da parte dello Stato, contro il libero e sfrontato esercizio del pensiero e della prassi artistica, che non si vedeva, con quest'irruenza implacabile, dai tempi de La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini. Opera impietosa e maniacale nel suo proposito blasfemo di ricollocare il nuovo testamento in un contesto assolutamente laido, in cui il divino è declassato e negato in nome dell'ultima e della più letale di tutte le apocalissi.
Crash (1996) di David Cronenberg
David Cronenberg adatta l'omonimo romanzo di James Graham Ballard trasformandolo in qualcosa di completamente suo: come da tipica ossessione del regista, l'evoluzione della tecnologia si intreccia all'inquietudine dell'essere umano, pronto a morire pur di raggiungere l'apice del proprio desiderio. Tra sesso, violenza, lacerazioni e cicatrici, l'automatismo dei comportamenti e la sconnessione dei rapporti riflettono un mondo sull'orlo del baratro, pronto all'autodistruzione e reso ancor più straniante da una tecnica stilistica asettica, priva di qualunque sbavatura o cliché. Il Premio della Giuria a Cannes suscitò non poche polemiche; in più, negli Usa la proiezione fu posticipata di mesi, in Gran Bretagna ci fu una crociata censoria, in Italia (a Napoli) fu vietata la distribuzione.
L'esorcista (1973) di William Friedkin
Il film che ha contribuito a sdoganare l'horror tra il grande pubblico, tratto dal romanzo omonimo di William Peter Blatty (anche produttore e sceneggiatore) e mirabilmente diretto da William Friedkin. Capolavoro di costruzione tensiva, capace di annientare emotivamente lo spettatore tramite l'uso di un climax narrativo costante, L'esorcista scava nelle paure ancestrali dell'essere umano, oltre a rivelarsi saggio psicanalitico da manuale nonché riflessione critica sulla dicotomia scienza-fede nella società moderna. Una discesa agli inferi a tratti insostenibile, con sequenze che provocarono svenimenti di massa all'uscita nelle sale: una su tutte, l'agghiacciante masturbazione di Regan con un crocifisso di fronte all'atterita madre.
Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci
Il film più celebre, discusso e controverso di Bernardo Bertolucci, nonché l'opera più pessimista del regista parmense. Il profondo disagio esistenziale dei due protagonisti viene sublimato attraverso il sesso che, nella sua forma più libera e sostanzialmente perversa, è contemporaneamente strumento di ribellione e annichilimento di se stessi. Grande scandalo all'uscita del film in Italia (e perdurato negli anni) per via delle scene di sesso esplicito, in particolare quella in cui Paul sodomizza Jeanne dopo averle lubrificato il retto con del burro. La pellicola fu sequestrata dalla censura, condannata al rogo e poi riabilitata con sentenza di non oscenità nel 1987 e quello stesso anno fu rieditata.
La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri
«Siete grotteschi, grotteschi e disgustosi. Perché mangiate, se non avete fame? Non è possibile, non è fame!». Agghiacciante e disperato apologo sulla deriva consumistica dell'uomo contemporaneo, immolato al culto del superfluo e destinato a spegnersi dopo una vita consacrata all'inettitudine. «Ho voluto raccontare la storia di quattro macchine fisiologiche che, prima di avere dei sentimenti, hanno delle necessità» (Marco Ferreri): il 17 maggio 1973 La grande abbuffata venne proiettato a Cannes, suscitando lo sdegno generale. "Giornata degradante per il Festival, umiliazione per la Francia, vergogna ai produttori e agli attori", tuonò la stampa. Una bagarre annunciata, che però non impedì al film, nonostante i fischi e gli sputi degli spettatori, di vincere il Premio FIPRESCI ex aequo con La maman et la putain di Jean Eustache.
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini, ovvero scandalo annunciato: fin dalla prima di Accattone, i film del regista sono sempre stati accolti con ostilità e violenza. Non fa eccezione Salò, in cui Pasolini mette al centro della sua analisi sociologica il Potere e ambienta Sade durante la repubblica di Salò per mettere alla berlina quel periodo storico italiano che è una chiara metafora dell'Italia degli anni Settanta. Così, se nella precedente “Trilogia della vita” veniva celebrata l'esaltazione del sesso, descritto come atto libero, spontaneo e soprattutto anti-classista, in Salò o le 120 giornate di Sodoma il sesso viene invece usato come strumento di tortura e quindi, per estensione, come canale attraverso cui ribadire la supremazia di una classe su un'altra (non a caso, i quattro carnefici portano i nomi dei quattro tipi di potere istituzionale in Italia: il potere nobiliare, il potere ecclesiastico, il potere giudiziario e il potere economico). Insostenibile e necessario. Polemiche a non finire e processo per il produttore Alberto Grimaldi.