A Ed Bloom (Ewan McGregor da giovane, Albert Finney da anziano) resta poco tempo da vivere: cercherà di approfittarne per rafforzare il legame con il figlio Will (Billy Crudup), al quale racconterà l'incredibile storia della sua vita.
Per il suo capolavoro, Tim Burton (ispirandosi al romanzo omonimo di Daniel Wallace) sceglie di abbandonare le atmosfere dark e il soprannaturale per affidarsi a un racconto d'amore e di amicizie, di avventure e d'incontri: la storia del protagonista è la storia di una vita come tante, unica come lo sono tutte. Edward Bloom è il Phineas T. Barnum dell'età contemporanea, dotato del potere più prezioso e raro che ci possa essere: costruire lo straordinario a partire dall'ordinario. Il suo importante cognome è un evidente riferimento al Leopold Bloom dell'Ulisse di Joyce: come lui, Ed percorre un viaggio mitologico, affidato a un flusso di coscienza che sovrappone realtà a finzione, accadimenti a sogni. Con grande sensibilità, Burton entra in punta di piedi nella stanza di Bloom malato e intesse con un filo impalpabile il delicato rapporto padre-figlio, così vero e realistico come mai si era visto in precedenza nel cinema del regista. Allo stesso tempo, e con altrettanta efficacia, colora i racconti di Edward con pennellate di tinte circensi, tratteggiando, soprattutto nel meraviglioso finale (di felliniana memoria), una galleria di freaks tenerissimi proprio perché appartenenti alla quotidianità. Senza mai scadere nella retorica, Burton accompagna per mano Bloom fino alla fine della sua vita, creando un punto di convergenza della propria poetica, a metà tra le opere precedenti e quelle successive della sua filmografia. Raramente il cinema del nuovo millennio è stato così intenso, commovente, delicato e meraviglioso: merito anche di un cast in gran forma e della splendida partitura musicale di Danny Elfman.