La ventiduenne Jin-a (Lee Ji-eun) si trasferisce da Seoul a Pohang, nel piccolo motel “Birdcage Inn”, e vi si stabilisce lavorando come prostituta. La locanda è gestita da un padre (Jang Hang-sun) e da una madre (Jeong Hyeong-gi) che, per mantenere i figli, trattengono parte del guadagno notturno di Ji-a. La famiglia accetta di buon grado l'attività della ragazza, anche se la figlia più grande Hye-mi (Lee Hae-eun) non nasconde il disprezzo e il disagio per la professione e la condotta della nuova coinquilina. Cantore dell'emarginazione sociale e delle storture della civiltà contemporanea, Kim Ki-duk – qui alla terza regia dopo Coccodrillo (1996) e Wild Animals (1996) – ama sfuggire alle convenzioni esistenziali e narrative offrendo al pubblico circostanze estreme quanto quotidiane, simboliche eppure verosimili. Non sfugge a questa logica The Birdcage Inn, che mette in scena il tema del sesso utilizzandolo come strumento di comunicazione. Un approccio “obliquo” che esploderà definitivamente nel successivo L'isola (2000), anch'esso aggrappato a personaggi che accettano le loro “animalesche” routine come condizioni naturali e che sembrano aver smesso di credere in qualsivoglia salvezza. È un microcosmo che contiene moltitudini, in perfetto ed essenziale equilibrio fra loro: il disprezzo scolora nella fiducia, l'amore contiene quasi per definizione la deriva della violenza, l'incontro di solitudini diviene inevitabilmente condivisione. Kim metaforizza molto, senza però perdere mai il controllo “poetico” della situazione: la protagonista Jin-a è come i pesciolini rossi più volte inquadrati nel corso del film, costretta a sopravvivere nello spazio angusto e soffocante dell'acquario/albergo e incapace di affrancarsene. Peccato soltanto per qualche momento di stanca presente qua e là, che inficia, in parte, la resa complessiva della pellicola.