Il lavoro della Joffrey Ballet Company di Chicago, compagnia di danza guidata da Alberto Antonelli (Malcolm McDowell), tra sessioni di allenamento e vita ordinaria. Robert Altman, come molti hanno provveduto a sottolineare, come regista somiglia molto a un coreografo: le sue orchestrazioni attoriali, dopotutto, spesso e volentieri sono così sofisticate da non aver nulla da invidiare alla complessa scrittura per il palcoscenico. Questo film di danza piuttosto inconsueto, pieno di numerosi momenti filmati dal vivo in un'alta definizione di spettrale bellezza, dovrebbe dunque essere pane per i suoi denti, ma il risultato è deludente: nonostante l'indubbio impatto e la suggestione di molte sequenze che hanno per protagonisti i balletti, l'assenza di un autentico collante drammaturgico e la svogliatezza con cui gli attori sembrano approcciarsi ai loro personaggi alla lunga si fanno sentire. Fa eccezione giusto Malcolm McDowell, che caratterizza il suo Antonelli ricamandolo in parte su reali fattezze e atteggiamenti di Gerard Arpino, direttore e fondatore della Joffrey Ballet Company all'epoca ancora vivente (scomparso poi nel 2008). Neve Campbell, che ha alle spalle un passato da ballerina, coinvolta in prima persona nel progetto e anche produttrice, trascorse due anni con i ballerini, immedesimandosi nel loro training e stringendo rapporti umani con loro. Nel volume Altman racconta Altman a cura di David Thompson, il regista, fino a quel momento restio a parlare del proprio lavoro, si lascia andare a un flusso di confessioni a cuore aperto e definisce il film il suo più simile a Nashville (1975), per via del fatto che là tutti gli attori erano cantanti e in questo caso i ballerini sono invece gli attori.