Amburgo, anni Settanta. Il Golden Glove è un bar malfato frequentato da clienti ubriaconi e poco raccomandabili. Uno di loro si chiama Fritz Honka (Jonas Dassler), un uomo ossessionato dall'alcool e dalle donne. Fritz nasconde un segreto, è uno dei più spietati assassini della recente Storia tedesca.
A due anni di distanza dal precedente Oltre la notte (2017), Fatih Akin torna alla regia per raccontare la storia di un uomo dal carattere tanto perverso quanto incomprensibile. Una storia potenzialmente molto affascinante e in grado di poter restituire sullo schermo un personaggio torbido ma magnetico. Tuttavia, Akin non solo spreca l'occasione per fare centro, ma adotta delle scelte di sguardo davvero inopportune che rendono il lavoro più che irritante. Oltre ad alcune sequenze ricattatorie e moralmente inaccettabili (la violenza finalizzata all'ironia, la sessualità volutamente grottesca, i sogni erotici scult e via dicendo), il problema principale di Il mostro di St. Pauli risiede proprio nel voler a tutti i costi razionalizzare e comprendere la figura di Honka. Il regista pensa che mostrandoci le sue gesta senza nessun disegno drammaturgico degno di questo nome possa in qualche modo calarci nella sua psiche, appoggiandosi a una precisa ricostruzione storica (come riportano le foto di scena sui titoli di coda) o a momenti fortemente pulp che stonano con le intenzioni del progetto. Sottovalutando il potere dell'immaginazione del pubblico, Akin ci mostra il suo killer senza lasciare la possibilità di indagare il macabro, maligno e mefistofelico animo di un uomo borderline con evidenti disturbi sociali: tutto è troppo chiaro, solare, prevedibile o fintamente macabro. Come se non bastasse, il cinema adottato dal regista gioca con il genere rifugiandosi in stilemi commerciali già ampiamente sviluppati e per nulla adatti a un film con queste mire. Da evitare. Presentato in concorso al Festival di Berlino.