Antonio Pane (Antonio Albanese) ha quarantotto anni e un presente da reinventare: la sua capacità (come afferma lui stesso) di “arrangiarsi in tutto” lo porta a una carriera da sostituto, nella quale prende il posto vacante di altri lavoratori per breve tempo. L'irriducibilità dei suoi principi lo manterrà però estraneo alle logiche del precariato e della lotta per la scalata sociale.
Lo sbandierato esordio nella “commedia” di Amelio è una parabola timidamente surreale che va in scena attraverso la maschera di Albanese e vorrebbe raccontare la crisi economica (e non solo) contemporanea mirando anche ad un più ampio racconto allegorico. Il tutto però si risolve nel primo, clamoroso, passaggio (totalmente) a vuoto del regista: un'opera in cui non funziona nulla e che non riesce a comunicare alcunché allo spettatore, perdendosi tra una poetica stralunata e banale che dà vita a sketch dal respiro cortissimo. Più che di un'occasione sprecata, si tratta di un progetto errato in partenza, incursione in un terreno e in un linguaggio cinematografico evidentemente non congeniali all'autore. La Milano leziosa e fintamente retrò di alcune sequenze (i caseggiati di ringhiera, le carrellate sulla Martesana) è più posticcia che mai. In più di un momento si incontra apertamente il ridicolo involontario, come nella scena in cui Pane finisce per vendere le rose per strada incontrando la ex moglie con il nuovo compagno. Sprecato e per niente ispirato anche Albanese, sorta di Charlot dei poveri, irritante nel suo subire acriticamente ogni scherzo del destino e zuccheroso nel suo legame col figlio musicista (Gabriele Rendina), attorialmente incapace: proprio le citazioni di Chaplin, più di altro, gridano vendetta. Inquadratura finale da dimenticare. In concorso (fischiato) a Venezia 70.