Una coppia (Florence Pugh e Jack Reynor) giunge in Svezia per far visita a un amico che abita in un villaggio di campagna e festeggiare con lui la tradizionale festa di mezza estate. Questa festa, tuttavia, assumerà presto dei contorni disturbanti e inquietanti, legati al culto pagano praticato in quelle zone.
Dopo l’esordio con Hereditary – Le radici del male (2018), a distanza di un solo anno il regista Ari Aster si cimenta con un’altrettanto azzardata incursione nelle pieghe del terrore: Midsommar – Il viaggio dei dannati, suo seconda, ambiziosissima sortita dietro la macchina da presa, è un film che si nutre di paesaggi sterminati e riti ancestrali, trasformando una remota e sperduta località scandinava in un regno dell’ignoto e del perturbante che svelerà, gradualmente e attraverso una tensione sottile e strisciante, tutta la sua carica terrificante e destabilizzante. A differenza degli spazi angusti e demoniaci di Hereditary, raccolti, familiari e non di rado miniaturizzati, in questo caso ci si muove all’aria aperta, nel regno dell’ignoto a perdita d’occhio, ma il risultato è inferiore alle attese e al potenziale del talento registico di Aster. Il calcolato lavoro sul sonoro e sulle immagini, corredate di una circolarità insistita e reiterata, s’immerge in una deformità antropologica posta ai confini dell’Europa, ma lo fa con un’eccessiva e controproducente quantità di manierismo e compiacimento. Col passare dei minuti le situazioni, a cominciare dal trauma familiare della protagonista vanificato e abbandonato a se stesso dopo il prologo urbano, perdono di senso e smarriscono concretezza e reali strascichi, l’accumulo di suggestioni al confine tra il lirico e il demoniaco si fa stucchevole e non rimane molto altro all’infuori di una confezione estetica indubbiamente lussuosa ma comunque derivativa. Le singole immagini di forte impatto non mancano - si veda ad esempio il fiammeggiante e catartico rogo finale - e l’attenzione ai dettagli, soprattutto quelli floreali, confermano il robusto talento del cineasta, ma la dimensione allucinatoria di quest’incubo a occhi aperti di mezza estate convince molto meno del previsto e raccoglie solo parte del seminato, soprattutto sul versante mistico-religioso. Florence Pugh è un’ottima e virginea scream queen vessata da tormenti e nevrosi indicibili, ma anche le sorti del suo personaggio avrebbero meritato miglior fortuna; soprattutto nelle ultime battute della sceneggiatura, che si abbandonano a dinamiche sessuali di gruppo in bilico tra gusto lisergico grossolanamente camp ed evidenti e sornione strizzate d’occhio al trash. Molto apprezzato, negli Stati Uniti, dal cineasta Jordan Peele, che gli ha tributato tutto il suo appassionato apprezzamento.