Margot (Margit Carstensen) ha una seconda gravidanza in corso. È paranoica e impaurita, non sopporta nessuno dei suoi congiunti e familiari, in più è fedifraga e comincia a maturare una dipendenza dai farmaci.
Il ritratto di una figura femminile stritolata dai suoi obblighi borghesi, la cui ordinarietà repressa cela una personalità incapace di rimanere nei ranghi della sottomissione matrimoniale. E dato che non ha la forza per sottrarvisi, Margot riversa il suo rancore inespresso nel dispiegamento palese di svariate, piccole, irreversibili nevrosi: una patologia che il cinema di Fassbinder ha affrontato spesso, ma in maniera poco esplicita, nella fase matura della sua carriera, preferendogli le passioni viscerali del melodramma (come in La paura mangia l'anima del 1974) che, pur essendo inscenate dal regista in forme raffinatissime, non colpiscono come in passato. Lavorando sui non detti, come in questo caso, è evidente che Fassbinder perda buona parte della propria audacia e forza espressiva, ma non si può negare l'efficacia con cui l'autore riesce a scandagliare una psicologia tormentata, favorendo l'immedesimazione di chi guarda, e rendendo lo sguardo della protagonista una finestra sul mondo, dalla quale pare di spiare furtivi ciò che mai e poi mai dovremmo vedere.