Il Primo Re
2019
Paesi
Italia, Belgio
Genere
Drammatico
Durata
127 min.
Formato
Colore
Regista
Matteo Rovere
Attori
Alessandro Borghi
Alessio Lapice
Fabrizio Rongione
Massimiliano Rossi
Tania Garribba
Lorenzo Gleijeses
Vincenzo Crea
Antonio Orlando
Michael Schermi
753 a.C. I fratelli pastori Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi) devono contare l'uno sull'altro per sopravvivere in un mondo ostile. Dalle loro gesta e da sanguinose battaglie, nascerà la città di Roma, uno dei più grandi imperi della storia.
Dopo i buoni esiti di Veloce come il vento (2016), Matteo Rovere punta su una sfida ancor più ambiziosa, tanto nel soggetto, quanto nella forma adottata. Parlato completamente in proto-latino, il film sembra guardare per diverse ragioni ai lungometraggi di Mel Gibson (Apocalypto, in primis, e non solo per le scelte linguistiche), ma anche a The New World – Il nuovo mondo (2005) di Terrence Malick, Valhalla Rising (2009) di Nicolas Winding Refn o Revenant – Redivivo (2015) di Alejandro Gonzalez Iñárritu. Nomi indubbiamente suggestivi e tendenzialmente lontani dai modelli tipici del cinema italiano, che fanno capire innanzitutto il coraggio di Rovere e il suo desiderio di misurarsi con una materia tanto complessa. È una sfida che si può dire in buona parte riuscita, un po’ per l’originalità del prodotto all’interno del panorama italiano, ma soprattutto per la sua grande forza visiva: il lavoro del direttore della fotografia Daniele Ciprì, basato sul suggestivo uso della luce naturale, affascina infatti fin dalla prima, spettacolare sequenza, in cui viene mostrata l’esondazione del Tevere. I limiti stanno in un andamento ridondante e in una narrazione che, in qualche passaggio, non riesce a supportare adeguatamente i tanti spunti proposti, da quelli religiosi a quelli legati al mito fondativo che viene raccontato. I modelli di riferimento hollywoodiani forniscono ampio respiro all'operazione, anche se, al tempo stesso, diventano a volte un ingombrante elemento di confronto. Ma quello che conta è lo spirito dell'opera, un tentativo in gran parte riuscito di realizzare un'avventura dai tratti arcaici e primordiali, votata a rispecchiare l'essenza brutale di un'epoca oscura. Notevole la padronanza cinematografica di Rovere, capace di gestire al meglio l'apparato visivo e sonoro del film. I limiti emergono quando la messa in scena cede all'eccesso (della violenza, in primis) o alla ridondanza della forma (la battaglia in cui abbondano i ralenti, i droni nel finale). Ma la qualità è evidente nelle scelte più radicali, nei silenzi, nel rapporto tra i corpi dei personaggi e l’ambiente che li circonda. Un film di fango, lacrime e sangue, di ferina brutalità, che sembra non voler incontare a tutti i costi i gusti del grande pubblico. Carnale e intensa prova dei due protagonisti Alessio Lapice e Alessandro Borghi, capaci di rendere in maniera incisiva i tormenti e le pulsioni dei due protagonisti. Da segnalare, infine, che il soggetto e la sceneggiatura sono stati scritti dal regista insieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, gli stessi con cui aveva firmato il già citato Veloce come il vento.
Dopo i buoni esiti di Veloce come il vento (2016), Matteo Rovere punta su una sfida ancor più ambiziosa, tanto nel soggetto, quanto nella forma adottata. Parlato completamente in proto-latino, il film sembra guardare per diverse ragioni ai lungometraggi di Mel Gibson (Apocalypto, in primis, e non solo per le scelte linguistiche), ma anche a The New World – Il nuovo mondo (2005) di Terrence Malick, Valhalla Rising (2009) di Nicolas Winding Refn o Revenant – Redivivo (2015) di Alejandro Gonzalez Iñárritu. Nomi indubbiamente suggestivi e tendenzialmente lontani dai modelli tipici del cinema italiano, che fanno capire innanzitutto il coraggio di Rovere e il suo desiderio di misurarsi con una materia tanto complessa. È una sfida che si può dire in buona parte riuscita, un po’ per l’originalità del prodotto all’interno del panorama italiano, ma soprattutto per la sua grande forza visiva: il lavoro del direttore della fotografia Daniele Ciprì, basato sul suggestivo uso della luce naturale, affascina infatti fin dalla prima, spettacolare sequenza, in cui viene mostrata l’esondazione del Tevere. I limiti stanno in un andamento ridondante e in una narrazione che, in qualche passaggio, non riesce a supportare adeguatamente i tanti spunti proposti, da quelli religiosi a quelli legati al mito fondativo che viene raccontato. I modelli di riferimento hollywoodiani forniscono ampio respiro all'operazione, anche se, al tempo stesso, diventano a volte un ingombrante elemento di confronto. Ma quello che conta è lo spirito dell'opera, un tentativo in gran parte riuscito di realizzare un'avventura dai tratti arcaici e primordiali, votata a rispecchiare l'essenza brutale di un'epoca oscura. Notevole la padronanza cinematografica di Rovere, capace di gestire al meglio l'apparato visivo e sonoro del film. I limiti emergono quando la messa in scena cede all'eccesso (della violenza, in primis) o alla ridondanza della forma (la battaglia in cui abbondano i ralenti, i droni nel finale). Ma la qualità è evidente nelle scelte più radicali, nei silenzi, nel rapporto tra i corpi dei personaggi e l’ambiente che li circonda. Un film di fango, lacrime e sangue, di ferina brutalità, che sembra non voler incontare a tutti i costi i gusti del grande pubblico. Carnale e intensa prova dei due protagonisti Alessio Lapice e Alessandro Borghi, capaci di rendere in maniera incisiva i tormenti e le pulsioni dei due protagonisti. Da segnalare, infine, che il soggetto e la sceneggiatura sono stati scritti dal regista insieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, gli stessi con cui aveva firmato il già citato Veloce come il vento.
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