Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino), la cui famiglia fu interamente sterminata dai Corleonesi, suoi rivali mafiosi, ha permesso a giudici come Falcone, prima di cadere tragicamente per mano della mafia, di portare alla luce l'esistenza dell’organizzazione mafiosa di Cosa Nostra, rivelandone i capi, facendoli imprigionare e svelandone le collusioni.
Marco Bellocchio si confronta con un biopic lineare, complessivamente schematico e dal taglio informativo, sulla vita di Tommaso Buscetta, detto “don Masino”, il pentito più celebre e influente della storia della mafia siciliana e non solo. Il film ne segue le vicende biografiche dagli anni Ottanta all’inizio del Duemila, quando morì, delineando un affresco dell’Italia dell’epoca che passa attraverso tradimenti e menzogne, dialoghi rivelatori (quelli con Falcone, ad esempio, dove echeggia inequivocabile il tema della morte) e un pallottoliere di omicidi d’onore che scorre in maniera inesorabile. Il tessuto formale del film, che segue le peregrinazioni di Buscetta, noto come “il boss dei due mondi”, anche in Brasile e negli Stati Uniti, regala più di un momento in linea con la forza espressiva delle immagini di Marco Bellocchio, che plasma intorno a un personaggio prismatico e indecifrabile, divorato dal destino tragico che si è scelto, la propria consueta riflessione sulla famiglia (i figli e i padri, i legami interni a Cosa Nostra), demone inestirpabile da interiorizzare, ma soprattutto, a un certo punto della propria vita, da rinnegare e abbattere, stroncando la linea genetica e di sangue che ci precede. La messa in scena, nonostante tali interessanti e potenti premesse metaforiche, smarrisce parte del suo potenziale a causa di un andamento che in più di un’occasione si fa schematico. Il lungo blocco del maxi-processo, per quanto necessario a mettere a fuoco la dimensione teatrale del personaggio, è eccessivamente dilatato e si perde in verbosità che non aggiungono nulla al disegno complessivo e tratteggiano alcuni macchiettismi di troppo (inefficaci e troppo patinate, ad esempio, le figure dei giudici, soprattutto dal punto di vista vocale). Ne risulta un’opera capace di incuriosire e interessare, ma con un andamento piuttosto altalenante e senza troppi guizzi su cui puntare. Buona e volenterosa prova di un diligente Pierfrancesco Favino, per una pellicola che vive anche troppo sulle sue spalle. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2019, il film ha vinto 6 David di Donatello, tra cui quelli per il miglior lungometraggio italiano dell'anno e per il miglior regista.