Un fotografo (David Wissak) esegue alcuni sopralluoghi per un reportage nel deserto californiano. Lo segue la sua compagna (Yekaterina Golubeva). I due, al cospetto della natura selvaggia, si lasceranno travolgere dalla passione erotica. Ma l'orrore è in agguato. Solitamente legato alla desolata provincia francese, Bruno Dumont esporta il suo cinema dei corpi, dell'inazione e del silenzio, in America, per la precisione nel deserto Californiano. Qui pedina con sguardo contemplativo e assente le peregrinazioni senza meta della coppia di protagonisti e, privando il film di qualsiasi traiettoria narrativa, cerca di raggiungere una sorta di purezza filosofico-esistenziale nel mostrare l'uomo ridotto a pezzo di carne che si esprime a grugniti e copula tutto il tempo di fronte alla magnificenza della Natura. Dumont tuttavia si dimentica dello spettatore e, sganciando la vicenda da qualsiasi realismo sociologico (come accade nei suoi film più riusciti, dove il nulla narrativo funziona nel raccontare il vuoto della vita ai margini), dà vita a una delle più tediose e presuntuose opere cinematografiche d'inizio nuovo millennio. Raccontare il nulla con il nulla, difatti, è un'operazione rischiosa, dove il confine tra capolavoro esistenziale e patacca autoriale è sottilissimo. Ma i difetti strutturali del film non finiscono qui: la scelta di scenari suggestivi e soprattutto la virata horror del finale sembrano tradire un bisogno di sensazionalismo e “scandalo” (negli anni 2000, sigh!) che contraddice fortemente il rigore formale-filosofico tanto sbandierato. Profondamente dannoso oltre che inguardabile.