Alcuni giorni negli ultimi tre mesi di vita del pittore olandese Vincent Van Gogh (Jacques Dutronc) a Auvers-sur-Oise, dove soggiornò a fianco del medico Gachet (Gérard Séty) e della figlia Marguerite (Alexandra London), tra le visite del fratello Théo (Bernard Le Coq) e le frequentazioni di prostitute e bordelli, fino alla morte avvenuta nel 1890. Nel finale di Ai nostri amori (1983), Pialat recitava le ultime parole del pittore olandese prima di morire («La tristezza durerà per sempre»), precisando come non parlasse soltanto del suo stato d'animo, ma del mondo, vittima eterna del male di vivere. Da tali premesse prende vita il singolare Van Gogh, il più umano e il meno maledetto dei numerosi biopic sul celebre pittore: Dutronc dà una forma gracile eppure vitale all'artista in lotta perenne tra follia e insuccesso, confuso dalle negligenze del fratello Théo (Bernard Le Coq, commuovente nell'ambivalenza dei sentimenti verso Vincent), mercante d'arte che all'epoca non ne valorizzò l'immenso talento. Similmente, lo stesso regista evita di celebrarne didatticamente l'opera pittorica, che rimane in secondo piano rispetto ai rapporti con Marguerite (Alexandra London) o con la prostituta Cathy (Elsa Zylberstein); anche gli episodi noti della sua vita tormentata (il ricovero a St. Remy, il taglio dell'orecchio) vengono lasciati fuori campo, all'interno di un ritratto vicino al dramma quotidiano che lentamente incide sul pensiero e sull'arte. Composta da lunghe sequenze in pieno stile Pialat, tra le quali spicca la scena magistrale nella sala da ballo parigina, la pellicola soffre di una durata eccessiva e dell'indeciso accavallamento tra il mito e l'ordinario, ma resta un'operazione accattivante e valorizzata da un apparato formale tutt'altro che trascurabile. Presentato in concorso al Festival di Cannes.