Nella New York rampante degli anni '80, il broker Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio), grazie ai consigli di Mark Hanna (Matthew McConaughey) e con l'aiuto del socio Donnie Azoff (Jonah Hill), diventa uno squalo della finanza e un miliardario. Almeno finché l'FBI non scopre i suoi affari poco leciti.
Dall'autobiografia del vero Belfort sceneggiata da Terence Winter, un film summa per Martin Scorsese, ormai abbonato alle superproduzioni ad alto budget. Per quanto l'era dello yuppismo forsennato fosse già stata raccontata (e in tempo reale) in Wall Street (1987) di Oliver Stone, è inquietantemente realistico questo ritratto corrosivo del capitalismo americano, in cui il regista recupera l'amoralità rivoltante e fascinosa dei suoi gangster-movie e l'ironia nera à la Fuori Orario (1985). Il film è puro spettacolo per gli occhi: non si contano le scene cult – dal lancio dei nani all'esilarante sequenza dell'overdose da Quaaludes – né le perizie di una macchina da presa costantemente “viva” e in movimento. Senz'altro compiaciuta ed eccessiva (per la durata monstre, il mix strabordante di sesso, droga & dollari, l'apoteosi del “fuck” pronunciato 506 volte), la parabola di Belfort è comunque l'ulteriore tassello nella filmografia di un regista che da sempre racconta con lucidità i lati oscuri di una Nazione. DiCaprio in gran forma in un ruolo scritto su misura per lui (premiato con il Golden Globe, ancora una volta ignorato dagli Oscar), Jonah Hill è efficace e quanto mai sgradevole, mentre McConaughey lascia il segno con un cameo breve ma irresistibile.