Autore che ha sempre cercato di coniugare il classicismo con la curiosità per la sperimentazione formale, Gus Van Sant è uno dei cineasti più originali e apprezzati del panorama contemporaneo.
Il viaggio come conoscenza e trasformazione; il senso di abbandono e solitudine che da individuale si fa universale (quando non generazionale); il bisogno di amare e di sentirsi amati; la difficile e spesso contraddittoria transizione dalla giovinezza all’età adulta (con tutto il suo carico di drammi e responsabilità): sono questi alcuni dei temi portanti della filmografia del regista di Louisville.
In attesa di vedere il suo ultimo film, Don’t Worry, in concorso al Festival di Berlino, LongTake dedica a Gus Van Sant il suo appuntamento con la classifica della settimana, scegliendo i cinque film dell’autore americano più meritevoli, secondo il giudizio della nostra redazione.
Ecco a voi, dunque, la top 5 dedicata al cinema di Gus Van Sant.
5) Drugstore Cowboy
Opera seconda di Gus Van Sant che adatta un romanzo autobiografico di James Fogle. Un film ben calato nel suo tempo, che dal pulpito non così scontato della fine degli anni Ottanta riesce a prefigurare gli echi della successiva rabbia grunge: tema assai caro al regista americano e reso ancor più evidente in opere successive come Belli e dannati (1991) e Last Days (2005). Il regista mostra di sapere inquadrare benissimo il fascino di un’esistenza randagia e di una mitologia americana della vita di strada, senza però cedere ai soliti stereotipi. Cameo, nella parte di un prete tossicodipendente, dello scrittore della beat generation William S. Burroughs, anche co-sceneggiatore del film (non accreditato).
4) Da morire
A partire da un romanzo di Joyce Maynard, Gus Van Sant dà vita a una black comedy acidula con tratti seducenti e perfino sensuali, in cui la riflessione corrosiva sui mass media si concretizza attraverso una cifra espressiva ricorrente: l’uso diffuso dell’intervista e della confessione della protagonista direttamente in camera. Opera brillante, surreale e a tratti crudele sulla psicopatologia della dipendenza, in questa circostanza applicata ai nuovi media, con una protagonista tossicomane dell’apparenza: una bella e dannata (perfino bellissima, perché Nicole Kidman non è mai più stata così mortalmente attraente) che concepisce il piccolo schermo come unica chiave d’accesso alla legittimazione sociale su larga scala nel mondo contemporaneo.
3) Paranoid Park
Adattamento dell’omonimo romanzo di Blake Nelson, nuovo capitolo del percorso estetico più prettamente sperimentale inaugurato da Gus Van Sant a partire da Gerry (2002) in avanti. Il regista lavora sulle tonalità espressive rarefatte, arricchendole in questo caso con una dose ragguardevole di complessità psicologica, e sulle apparenze, elaborandole e facendole fermentare, provando a scrutare l’intimo mistero dei suoi personaggi dall’esterno, ma con delicatezza e misura. Ciò non fa che generare un fascino gelido ma, non per questo, distante o tanto meno artificioso. La fotografia di Christopher Doyle, unita all’utilizzo di soggettive in ralenti e insieme ad altre soluzioni formali, produce allo spettatore una sorta di inaspettato e spiazzante coinvolgimento lirico.
2) Gerry
Il più laconico e minimalista dei film di Gus Van Sant, girato con la mente rivolta al cinema d’autore europeo più estremo, lontano dalle esigenze della spettacolarizzazione cinematografica. Il modello d’elezione è in questo caso il cineasta ungherese Béla Tarr, che Van Sant omaggia con lunghi piani-sequenza in steadycam che immortalano i dialoghi dei protagonisti come dentro a uno stadio del Purgatorio dantesco, in cui non c’è punto di partenza né tanto meno una concreta speranza nell’arrivo. Opera di una radicalità sofferta e mai gratuita, che costringe lo spettatore a un supremo sforzo, ma che viene ripagato enormemente, grazie all’immersione in un liquido amniotico e in un’atmosfera così scarnificata e originale da risultare merce rara nel cinema americano degli anni Duemila.
1) Elephant
Il risultato più potente e destabilizzante della filmografia di Gus Van Sant è questo piccolo film para-documentaristico, stringato e insieme visionario, che trasforma l’orrore del quotidiano e il vuoto pneumatico di una certa noia giovanile in una sinfonia ellittica e brutale, in cui i piani-sequenza per i corridoi disegnano geometrie tanto armoniose quanto claustrofobiche. Uno degli esiti più sperimentali e moderni a cui è approdato il cinema degli anni Duemila, che ragiona sul contemporaneo come se fosse l’orrore sanguinoso di una tragedia greca: portando alla ribalta la drammaticità più profonda, amplificata oltretutto dall’uso incredibile delle musiche di Beethoven e da ciò che, irrimediabilmente, non si vede. Girato in tre settimane con attori non professionisti e ispirato al massacro della scuola Columbine. Palma d’Oro e premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2003.




