Frammenti di vita scolastica in un istituto di Portland (Oregon), dove degli adolescenti non fanno altro che parlare tra loro, condividere attimi insignificanti di vita ordinaria e passeggiare per i corridoi dell'istituto. Fin quando due di loro irrompono nella scuola e fanno una strage.
Il risultato più potente e destabilizzante della filmografia di Gus Van Sant è questo piccolo film para-documentaristico, stringato e insieme visionario, che trasforma l'orrore del quotidiano e il vuoto pneumatico di una certa noia giovanile in una sinfonia ellittica e brutalissima, in cui i piani-sequenza per i corridoi disegnano geometrie tanto armoniose quanto claustrofobiche. Van Sant sceglie uno stile sobrio, impeccabilmente feroce nella sua assenza di qualsiasi sottotesto, con il quale tallona i suoi giovani in ogni gesto e postura, in qualsivoglia movimento e torsione, svelandoli come maschere afasiche: adolescenti fantasma dalle nuche tutte uguali che si muovono tra le stanze, narcolettici e catatonici, in quello che sembra un purgatorio e invece è la più crudele e mortifera delle dannazioni, viste le conseguenze che comporterà. Videogame violenti, dialoghi senza meta e senza costrutto tra studenti e insegnanti, vite che mal conoscono l'andata e non hanno premeditato il ritorno. L'orrore è lì, acquattato dietro ogni angolo, nascosto in una mostruosità che c'è ma non si vede, descritta da soggettive fataliste e da una moltiplicazione continua dei punti di vista. Elephant, Palma d'oro e premio per la miglior regia a Cannes nel 2003, non è soltanto un saggio di stile in cui, paradossalmente, non succede nulla perché tutto, forse, è già accaduto. È un capolavoro di sguardo, di etica ed estetica, di sfumature sottili e di non detti che spalancano mondi interi. Uno degli esiti più sperimentali e moderni a cui è approdato il cinema degli anni Duemila, che ragiona sul contemporaneo come se fosse l'orrore sanguinoso di una tragedia greca. Portando alla ribalta la drammaticità più profonda, amplificata oltretutto dall'uso incredibile delle musiche di Beethoven e da ciò che, irrimediabilmente, non si vede. Girato in tre settimane con attori non professionisti e ispirato al massacro della scuola Columbine.