A Lullaby to the Sorrowful Mystery
Hele Sa Hiwagang Hapis
2016
Paesi
Filippine, Singapore
Genere
Drammatico
Durata
485 min.
Formato
Bianco e Nero
Regista
Lav Diaz
Attori
Piolo Pascual
John Lloyd Cruz
Hazel Orencio
Alessandra de Rossi
Joel Saracho
Verso la fine del diciannovesimo secolo, nelle Filippine dominate dalla dittatura spagnola, si fa sempre più forte la voglia di indipendenza. Molti ribelli, spinti dall'esempio del mitico Andrés Bonifacio y de Castro, colui che diede inizio alla rivolta, provano a insorgere nonostante la pressante presenza delle milizie ispaniche. C’è un fantasma che aleggia lungo tutta la durata di A Lullaby to the Sorrowful Mystery. Andrés Bonifacio y de Castro è morto, e la sua vedova si spinge nella giungla per cercarne il cadavere. Con lui, sembrano essere scomparse molte speranze d’indipendenza e la disillusione prende presto il sopravvento. Addentrandosi nella foresta, i personaggi scavano sempre di più all’interno di loro stessi, alla ricerca di una redenzione dalla proprie colpe e di un’identità che sembra impossibile (ri)trovare. Parla di libertà Lav Diaz, collegandola spesso all’arte (qui dotata di un esplicito potere salvifico) e ampliando il suo sguardo dall’evento che racconta alle successive umiliazioni che il popolo filippino ha dovuto subire: una libertà negata non (sol)tanto per la presenza, invisibile o quasi, del nemico spagnolo, quanto per il marcio (invidia, egoismo, avarizia, tradimenti) che lo stesso popolo filippino gettava verso i propri connazionali. Come ha spesso fatto nel corso della sua incredibile filmografia, Lav Diaz racconta la storia del suo paese natale per rivolgersi anche al presente, ponendo questioni importanti che sembrano ancora in attesa di una risposta. Forte di una straordinaria fotografia, A Lullaby to the Sorrowful Mystery colpisce e suggestiona, diventando l’ennesima dimostrazione del cristallino talento visivo del suo autore: le figure umane si mescolano all’ambiente circostante, si (con)fondono con esso in inquadrature studiate al millimetro. Ma, a differenza dei film immediatamente precedenti di Diaz, qualcosa scricchiola, a partire da una durata fluviale che in questo caso non trova un’adeguata giustificazione narrativa e di alcune riflessioni che sanno un po’ di maniera (ad esempio in Melancholia del 2008, simile nelle tematiche, la durata monstre appariva perfettamente pertinente e funzionale). Un'opera che procede in maniera sinusoidale, tra sequenze a dir poco ridondanti e immagini di suadente bellezza, capaci di squarciare lo schermo con tagli di luce che appartengono unicamente al cinema del regista filippino. Nonostante qualche perplessità, rimane comunque moltissimo su cui riflettere al termine della visione, e alcune scene (tutta la monumentale parte conclusiva, la parentesi del cinematografo, la setta che inneggia a una finta “vergine Maria”) sono pronte per essere mandate a memoria. Presentato in concorso al Festival di Berlino, dove ha vinto l'Alfred Bauer Award.
Maximal Interjector
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