Un uomo (Robert Redford) viene internato nella prigione di Wakefield, Arkansas, dove i detenuti versano in condizioni terribili, utilizzati per lavori forzati ai limiti dello schiavismo, torturati e malnutriti. Dopo pochi giorni l'uomo si rivela essere il nuovo direttore del carcere, Henry Brubaker, che si scontrerà con la malafede delle istituzioni e con tutti coloro che nello status quo prosperano.
Stuart Rosenberg torna a dirigere una storia di vita carceraria tredici anni dopo Nick mano fredda (1967) e il senso di déjà vu nelle sequenze iniziali è forte. Lo spettatore in apertura, come il protagonista, osserva, indaga, registra le situazioni, assume gli strumenti per giudicare: a quel punto è pronto per sposare la causa di Brubaker, eroe umanista in un contesto disumano e disumanizzante, portatore di progresso e civiltà, riformatore senza macchia e senza paura. A perdersi, in una sceneggiatura (firmata da W.D. Richter e candidata all'Oscar) comunque perfettamente costruita in un crescendo di pathos, indignazione, emozione, sono le sfumature: il film si rivela quindi un esempio discreto, ma un po' altalenante, di retorica progressista a stelle e strisce, con un eroe (incarnato dal solido, inscalfibile e iconografico Redford) che è leader al di sopra della sconfitta, battuto dal pregiudizio, dalla tradizione, dalla disonestà, dalla politica, ma trionfante a livello storico e politico. Imperfetto ma volenteroso. Musiche di Lalo Schifrin.